Cinema

Massimo Troisi

A 30 anni dalla morte del maestro della comicità italiana

  • 4 giugno, 09:23
  • 4 giugno, 15:51
Troisi

Massimo Troisi

Di: Michele R. Serra

«Per lui non vale il detto che è del Papa / Morto un Troisi, non se ne fa un altro».
Roberto Benigni ha scritto queste parole nel 1994, quando ancora non sapeva che trent’anni dopo sarebbe stato oratore ufficiale in piazza San Pietro, davanti alle autorità ecclesiastiche, durante oceanici raduni cattolici.
Ma il senso di quei versi rimane: c’entra poco con la spiritualità e molto con l’amicizia che lo legava a un altro dei geni comici della seconda metà del Novecento italiano, di quelli davvero di inarrivabile talento, capaci di rivoluzionare l’arte oscura del far ridere la gente e di rappresentare le diverse anime della Penisola, trascendendo al tempo stesso le origini geografiche per diventare universali. La lista non è molto lunga: Paolo Villaggio, Roberto Benigni, Massimo Troisi.

Morto un Troisi, in effetti, non se n’è fatto un altro. Forse perché già Massimo conteneva moltitudini – se perdonate la citazione whitmaniana, eccezionale quanto logora – e in quarantun anni di vita ha fatto conoscere al pubblico tutti i Troisi che servivano, dal 1953 al millennio successivo.
Massimo era il natural born comedian che aveva debuttato a 15 anni sul palco parrocchiale con l’amico Lello Arena; che aveva fatto la gavetta, tra sagre paesane e spettacoli allo stesso tempo molto pop e molto off; che era approdato ai grandi show televisivi della Rai, capaci all’epoca di offrire un pubblico enorme e indifferenziato, nonché una fama capace di andare oltre i confini geografici e generazionali. Una fama che, nell’epoca della frammentazione, inevitabilmente non esiste (né esisterà) più.
Massimo era quello che della comicità riusciva a cambiare i tempi. Che secondo tutti gli attori comici si possono affinare, ma non insegnare: o li hai, o non li hai. E Troisi era – anche qui, perdonate il paragone scontato – il Maradona dei tempi comici: istintivo, magico, sorprendente, diverso dagli altri. Le arcinote pause di Troisi sembravano voler spostare più in là il momento della battuta, la liberazione della risata, mentre in quelle attese si insinuavano pensieri altri, sentimenti diversi. Troisi sembra sempre leggermente fuori tempo, e forse non è un caso che il tempo sia stato spesso al centro della sua poetica. Scusate il ritardo, uno dei suoi titoli diventati storia (c’è qualcosa di più iconico, come usa dire oggi, dei titoli dei film di Troisi?) racconta gli inevitabili sfasamenti temporali che attraversano il rapporto di coppia: c’è chi (Lello Arena) vorrebbe riavvolgere il nastro di una relazione ormai finita, e chi (Massimo Troisi) non riesce a impegnarsi completamente nella sua nonostante il desiderio di lei (Giuliana de Sio), e rischia così di perderla.
Massimo era l’attore che critica, colleghi e registi adoravano. Chiedere a Ettore Scola, che lo accoppia per due volte con Marcello Mastroianni, e li porta a vincere una coppa Volpi condivisa a Venezia, nel 1989. 
Massimo era il regista che riusciva a unire pop e avanguardia con risultati maiuscoli, come giustamente ricorda Mario Martone nel suo recente documentario Laggiù qualcuno mi ama: è lo stesso Martone a soffermarsi sull’efficace ripresa di alcuni stilemi del cinema francese e della Nouvelle Vague in particolare, oppure sulla magistrale scena finale di Pensavo fosse amore, invece era un calesse. Anche Paolo Sorrentino, nello stesso documentario, esprime la sua ammirazione per i finali sospesi e sorprendenti di Troisi, a partire da quello celeberrimo di Scusate il ritardo. Quello di «… Non lo so, cioè… Resta».

Massimo era, anche, il ragazzino malato di cuore. Da bambino aveva sofferto di gravi febbri reumatiche con importanti conseguenze cardiache, da ragazzo era stato costretto a un complesso intervento chirurgico. A quarant’anni sapeva di aver bisogno di un trapianto, che aveva programmato subito dopo la fine delle riprese del Postino. Il giorno successivo alla sua morte sarebbe dovuto partire per Houston: lì lo aspettava Michael DeBakey, che qualche anno prima aveva curato anche l’ex re d’Inghilterra Edoardo VIII.
Anche se Massimo non amava parlare della malattia, chi lo conosceva diceva che quell’esperienza l’aveva reso più consapevole e maturo già da giovane. Secondo Michael Radford, quella consapevolezza rendeva ancora più significativo il suo umorismo. Chissà.

«La gioia di bagnarsi in quel diluvio / di “jamm, o’ saccio, ‘naggia, oilloc, azz!” / era come parlare col Vesuvio / era come ascoltare del buon jazz.»
La lingua di Massimo Troisi era alle orecchie di molti italiani un grammelot oscuro, vero. I fumettisti satirici Disegni & Caviglia gli avevano dedicato una storia intitolata Pensavo fosse attore, invece è catalessi: protagonista era un Troisi che passava le giornate a bofonchiare parole incomprensibili, annoiando mortalmente familiari e amici. In realtà, nessuno si annoiava, ad ascoltare Massimo mentre masticava suoni che non erano dialetto napoletano e neppure italiano. Con la voce bassa, le frasi smozzicate. Anche alla fine della proiezione di Ricomincio da Tre, a Locarno nel 1981, applaudivano tutti. Tutti avevano capito.
Perché Massimo ripeteva ogni concetto due, tre, cinque volte, in discorsi rotti da continui «cioè». E intanto aumentava i livelli di comunicazione, con il tono, l’andamento affabulatorio del discorso, e soprattutto le mani, stereotipo italiano per eccellenza. Massimo voleva dar voce a sentimenti profondi e alla difficoltà di comunicarli, insieme. Per riuscirci usava ogni mezzo possibile - tanto che le parole, alla fine, erano quasi un di più.

Troisi, il cinema italiano ricomincia da te

RSI Archivi 11.08.1981, 18:46

«Con lui ho capito tutta la bellezza / di Napoli, la gente, il suo destino / e non m’ha mai parlato della pizza / e non m’ha mai suonato il mandolino».
Roberto Benigni, infine, ha scritto prima quello che, dopo, hanno scritto tutti. Che Massimo Troisi era il massimo della napoletanità e allo stesso tempo l’opposto di ogni stereotipo riguardo alla sua città e alla gente che la abita: il napoletano uomo di mondo, padrone della strada, sempre con la battuta pronta, fracassone e anima della festa, seduttore, giù fino ai sopracitati mandolini, per tacer della pizza. Il napoletano di Troisi è invece un groviglio di nevrotiche timidezze, di pudori e inadeguatezza. Se i comici della scuola napoletana puntavano tradizionalmente sulla simpatia, lui ricercava empatia soprattutto. Massimo amava visceralmente Napoli, e ne detestava i cliché.
Forse non è un caso, se alla fine di No grazie, il caffè mi rende nervoso di Lodovico Gasparini, lo vediamo cadavere, legato dentro un organetto che suona Funiculì Funiculà, soffocato a morte da un trancio di pizza.

Lettera a Troisi | I luoghi affettivi di Massimo Troisi (1./5)

Arpeggi 13.02.2023, 17:45

  • Courtesy: Alessandro De Rosa

Lettera a Troisi | I luoghi affettivi di Massimo Troisi (2./5)

Arpeggi 14.02.2023, 17:45

  • Courtesy: Alessandro De Rosa

Lettera a Troisi | I luoghi affettivi di Massimo Troisi (3./5)

Arpeggi 15.02.2023, 17:45

  • Courtesy: Alessandro De Rosa

Lettera a Troisi | I luoghi affettivi di Massimo Troisi (4./5)

Arpeggi 16.02.2023, 17:45

  • Courtesy: Alessandro De Rosa

Lettera a Troisi | I luoghi affettivi di Massimo Troisi (5./5)

Arpeggi 17.02.2023, 17:45

  • Courtesy: Alessandro De Rosa

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