Cinema

Miracolo Tarkovskij, un cinema unico ed irripetibile

Film ascetici, ma senza enfasi, di un'umiltà estrema. Utilizzando lunghi e sapienti piano-sequenza, Tarkovskij mette in scena la preghiera di un ritorno alle origini

  • 04.04.2024, 11:00
Andrej Tarkovskij
Di: Mattia Cavadini 
Quando scoprii i film di Tarkovskij fu per me un miracolo. Mi trovai d’improvviso davanti alle porte di una stanza di cui non avevo la chiave. Una stanza dove avrei voluto sempre entrare.

Ingmar Bergman

Tarkovskij (4 aprile 1932 – 29 dicembre 1986) è ieratico, miracoloso. Nel suo cinema si compie l’incanto di un’altra esistenza. Si entra in un altro mondo, un mondo in cui non esiste falsità, in cui non si gioca a dadi, ma si guarda in faccia la realtà. In esso la miseria dell’uomo viene descritta senza appelli: è una miseria talmente ripugnante e disgustosa, che invoca la presenza di Dio.

Due esempi. In Solaris (1972) Tarkovskij immagina il pianeta costituito di una materia colloidale in grado di riflettere l’anima di coloro che vi transitano. Gli astronauti si trovano d’improvviso confrontati con la propria condizione morale. Non con ciò che vorrebbero essere, ma con ciò che in realtà sono. La scoperta della propria intima verità si rivela insopportabile e disgustosa. Gli astronauti scoprono la meschinità del proprio io, intessuto di falsità e ferocia. Si affacciano ossessioni, rimorsi, sensi di colpa, per quello che si è fatto, per la crudeltà di non aver amato. Kelvin incontra il fantasma della propria moglie, che per colpa sua si è suicidata. Soffre il tormento di non poter cambiare nulla, rivive con rimorso ciò che ha fatto, senza la possibilità di porvi rimedio. Il disgusto per la propria essenza morale è atroce.

Stessa impietosa descrizione della miseria che abita l’animo umano (corrotto da un materialismo onnipervasivo) avviene in Stalker. Alla fine del film, sulla soglia della stanza dei desideri, stanza che ha il potere di realizzare ciò che ciascuno nel proprio profondo desidera (quindi, non ciò che si dice di desiderare, ma ciò che veramente si desidera) lo Scrittore decide di non entrare, accompagnando la sua scelta con questa frase non andrò nella stanza perché non voglio vomitare in faccia a nessuno lo schifo che ho dentro di me. Stessa deprimente agnizione accade a Porcospino, personaggio enigmatico che decide di entrare nella stanza con il desiderio di resuscitare suo fratello, ma che si trova ricompensato con un'inaspettata ricchezza. Preso atto che la brama del denaro nel suo intimo era più forte del desiderio di riportare in vita il congiunto, Porcospino si suicida.

La miseria e la corruzione dell’animo umano costituiscono il motivo scatenante di tutti i film di Tarkovskij (in realtà pochi, 8 in 25 anni). A questa condizione di miseria, cui l’essere umano è giunto a causa di una spiccata propensione per l’edonismo e il materialismo, nonché per il totale asservimento alla scienza e alla tecnica (senza il necessario contrappeso di etica e coscienza), Tarkovskij non offre grandi possibilità di riscatto. Anzi, nelle sue pellicole, in modo intransigente e rigoroso, sembra affermare (sulla scia di Heidegger) che solo un dio può salvare l’uomo dalla sua degenerazione.

Di fronte al divorzio fra l’essere umano e la natura, di fronte al deterioramento che la tecnica e il materialismo hanno generato fuori e dentro l’essere umano, trasformando la natura dell’uomo in una seconda natura (sradicata, posticcia, urbana) e trasformando la terra in uno sfacelo di distruzione e speculazione, il cinema di Tarkovskij propone la via scomoda e difficile della fede. La fede in Dio, in quel Dio che si è fatto uomo. Uomo puro, che ha scelto l’esilio dal mondo per non scendere a patti con l’obbrobrio della sopraffazione e con le nefandezze della storia, che ha accettato il martirio per riscattare i peccati dell’umanità.

I protagonisti dei film di Tarkovskij sono personaggi cristici: il monaco Rublev, il folle Stalker, il protagonista di Sacrificio sono personaggi che accettano di rinunciare a tutto (alla propria famiglia, alla propria casa), che accettano addirittura di essere considerati pazzi, pur di costruirsi un baluardo di autenticità e sacralità; una Zona avulsa dal resto del mondo, fuori dalle logiche della distruzione e della devastazione, una Zona che conserva i bagliori di un Senso, luogo costantemente rigenerato dall’acqua e dal vento, abitato da Dio. La rinuncia dal mondo e la creazione di questo luogo sacro costituiscono l’atto di fede dei personaggi tarkovskiani.

Documenti video RSI

In questi luoghi, risparmiati dalla distruzione del nucleare, o forse rigenerati dopo che la distruzione nucleare (simbolo del peccato umano) si è propagata ai danni della Creazione, in questi luoghi –si diceva– i personaggi cristici di Tarkovskij si muovono e camminano, esiliati ma fieri. Essi non desiderano nulla. Io sto bene così dice lo Stalker, non vi invidio nulla, chiedo solo di essere lasciato in pace nella mia Zona, in questo luogo sacro che ho creato per sopravvivere, lontano dal filo spinato e dalle torture che voi continuamente vi infliggete. In questo luogo, ribadisce lo Stalker, tutto è calmo, silenzioso ma soprattutto non ci sono uomini che possono fare del Male.

Allo stesso modo dei suoi personaggi, anche Tarkovskij, con i suoi film, allestisce la sua Zona, il suo recinto sacro, in cui rinsaldare il legame con Dio. Questa Zona si presenta spesso intrisa di acqua, fonte di purezza e rigenerazione. Vi sono cavalli che nuotano, cani fedeli che si aggirano come angeli. Donne silenti che lavano bambini beati. Folli che camminano in cerca di un luogo dove posare il capo (Matteo 8, 20), sull’esempio del pellegrino russo, errante di luogo in luogo, che incessantemente recita il mantra: Signore, Gesù Cristo abbi pietà di me peccatore. Infanzia, maternità e misticismo: di questi tre elementi si costituisce la Zona filmica di Tarkovskij, fatta di acqua e di terra. Zona sacra in cui il regista intesse il suo fitto dialogo con Dio. Dialogo di fede, cui mai si sottrae: Colui che tradisce anche una sola volta i suoi principi, perde la purezza nel suo relazionarsi alla vita. Fingere con se stessi, significa rinunciare a tutto, rinunciare a fare film, rinunciare a vivere.

Costretto all’esilio (per non aver aderito ai dettami della propaganda imperialistica), Tarkovskij ci consegna pellicole eterne, dove il colore, il seppiato e il bianco/nero si compenetrano e avvalorano a vicenda, dove la fotografia assume un ruolo artistico di una bellezza sconfinata. In esse, ogni inquadratura è un quadro, un'icona sacra. La dimensione poetica mostra una propensione totalizzante, sino ad assorbire l'ipotesi di qualsivoglia plot o intreccio.

I film di Tarkovskij sono film ascetici, ma senza enfasi, di un'umiltà estrema. Utilizzando lunghi e sapienti piano-sequenza, Tarkovskij mette in scena la sua intima preghiera. La preghiera di un ritorno alle origini, a quel luogo in cui l'io e Dio sono una sola cosa. In cui non c’è necessità, ma grazia. In cui è possibile fruire delle benedizioni della terra, stringere amicizia con gli animali, superare la paura e la miseria.

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