Cinema

Motoseghe e cannibali

A cinquant’anni dall’uscita nelle sale, “Non aprite quella porta” resta un cult indiscusso, tra macabro intrattenimento e critica sociale

  • 30 ottobre, 11:41
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Di: Nicola Lucchi 

Che il cinema sia uno specchio in grado di riflettere i cambiamenti culturali di una società è evidente in quella categoria di film smaccatamente politici o di impegno sociale, ma meno immediato in quelle pellicole che, attraverso scelte estreme e contenuti al limite della censura, prendono letteralmente il pubblico a cazzotti. Eppure, quando Kim Henkel e Tobe Hooper decisero di scrivere e produrre Non aprite quella porta (The Texas Chain Saw Massacre, 1974), non desideravano solo imporre la propria presenza nel mondo del cinema, ma scrivere una critica feroce alla società americana. La trama, nella sua essenzialità, richiama il topos narrativo che vede delle persone intrappolate in una casa degli orrori. Se nel caso di Hänsel e Gretel i due fratelli la fanno franca grazie all’acume della bambina, meno fortunati sono i protagonisti di Non aprite quella porta, quasi interamente massacrati da una famiglia di psicopatici.

A una visione superficiale verrebbe da chiedersi dove, tra violenze e perversioni, si nasconda l’aspra critica sociale. Eppure, spacciare il racconto come tratto da una storia vera e girarlo in una forma quasi documentaristica era già la risposta a una società anestetizzata dalle menzogne di un governo bugiardo come quello di Richard Nixon, tra Watergate, crisi petrolifere e guerra in Vietnam. La banda di cannibali, inoltre, era la perfetta metafora della disfunzionalità di un buon numero di famiglie americane. Come tenne a precisare Tobe Hooper, del resto, l’unico mostro di questo horror a basso costo è l’essere umano. La posizione del regista nei confronti di Nixon e degli abusi perpetrati dalla politica del suo tempo fu certamente feroce, ma risulta piuttosto ipocrita, o se non altro ironico, scoprire come tale produzione fu portata avanti solo grazie a bugie, sopraffazione e sfruttamento, in perfetta coerenza con la società che si andava criticando.

Le bugie riguardavano i pagherò promessi da Bill Parsley, che fondata una società di produzione aveva investito sessanta mila dollari di tasca propria. Viste le condizioni in cui gli attori erano costretti a lavorare, le sopraffazioni furono di tipo psicologico e fisico. Infine, considerato che il budget bastava a malapena per un mese di riprese, lo sfruttamento riguardava le sedici ore lavorative a cui erano tutti obbligati a sottostare. La produzione non aveva abbastanza denaro nemmeno per permettersi due motoseghe, arma prediletta del buon Leatherface che, siccome per la stessa ragione non erano previsti cambi di abito, si trovò presto a puzzare talmente tanto da essere isolato, se non altro durante i pasti. In queste condizioni non mancarono ammutinamenti da parte dei tecnici, che stanchi di non vedere un singolo dollaro si assentarono dal set in varie occasioni, costringendo la già striminzita troupe a soluzioni temporanee. Il fatto che Hooper seguitasse a cambiare scene e battute, infine, suscitò in molti l’idea che non fosse all’altezza del ruolo.

Considerate le condizioni disastrose in cui si trovava il set, Hooper si rivelò al contrario in grado di trasformare i limiti in possibilità, e attraverso scelte oculate e raffazzonamenti dell’ultimo minuto riuscì a individuare la propria strada. Per un film del genere, l’utilizzo della pellicola 16 millimetri si rivelò più funzionale dello standard 35, la scarsità di attrezzature, allo stesso modo, fu intelligentemente gestita attraverso scelte registiche funzionali al racconto, come l’utilizzo di piani olandesi e inquadrature in grado di suscitare angoscia nello spettatore. Siccome il budget risicato non permetteva la realizzazione di effetti speciali sofisticati, anziché sugli squartamenti Hooper si concentrò sulle espressioni di terrore degli attori, con primi piani da manuale.

Malgrado le situazioni estreme vissute durante la produzione e il rifiuto delle major di distribuirlo una volta completato, The Texas Chain Saw Massacre uscì nell’ottobre del 1974 grazie alla Bryanston Distributing Company. William Hays era già passato all’altro mondo da vent’anni quando il film fu presentato all’MPAA, l’organo di cesura figlio della Motion Picture Producers and Distributors of America, ma sarebbe certamente uscito sconvolto dalla visione dell’opera che Hooper andava proponendo. L’obiettivo del regista era di ottenere un ragionevole “PG”, sigla che permetteva la visione anche a un pubblico minorenne col consenso dei genitori. La speranza, ingenuamente alimentata dalla scarsità di sangue versato e dall’assenza di scene gore, fu calpestata quando l’associazione consentì la visione al solo pubblico adulto. Servì qualche taglio per ottenere una striminzita “R” che, se non altro, costrinse i ragazzi sotto i 17 anni a vedere il film con la presenza di un adulto. Sebbene alcuni paesi del mondo si rifiutarono di distribuirlo, la classificazione ottenuta negli Stati Uniti fu sufficiente a garantirne il successo perché, a fronte di un budget irrisorio, The Texas Chain Saw Massacre incassò più di 30 milioni di dollari.

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Le reazioni del pubblico furono tra le più disparate. Chi lo additò come spazzatura e chi, come Friedkin, Milius e Craven lo considerò un film rivoluzionario, esatta metafora della società americana. Non sorprende quindi il proliferare di sequel e reboot realizzati nel corso degli anni a seguire, per non parlare delle molte pellicole che, come Le colline hanno gli occhi (1977) di Wes Craven o La casa dei mille corpi (2003) di Rob Zombie, sono dei veri e propri omaggi al film di Hooper. Ancora oggi, non esiste amante del genere che non reputi Non aprite quella porta un film di culto. Una pellicola che, dopo cinquant’anni e nonostante le difficoltà produttive, mostra ancora tutta la potenza delle sue indelebili immagini.

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  • Keystone

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