Tutti d’accordo, che la bellezza è importante? Spero di sì. Come si fa a dire il contrario?
Quante volte ci è capitato di sentire qualcuno che, senza timore di sembrare ridicolo, proclamava: «XXXX (il nome sceglietelo voi, a seconda della generazione alla quale appartenete: io sono un millennial degli anni Ottanta, quindi potrei scegliere Naomi Campbell o qualche altra supermodella della mia prima adolescenza) non vale niente, è solo bello/a». Ecco: affermazioni del genere sono da rifiutare con sdegno, sì. La bellezza, almeno oltre una certa soglia, è un talento che è necessario riconoscere. E che molto spesso le star di Hollywood portano a un livello superiore: quello del magnetismo attrattivo, degli occhi che illuminano la stanza, di tutti quei luoghi comuni che abbiamo sentito mille volte – e che esistono perché, beh, sono veri. Il livello su cui si muoveva Paul Newman era ancora più alto.
Pauline Kael, leggendaria critica cinematografica del New Yorker (l’anno scorso girava la voce che il prossimo film di Quentin Tarantino parlerà di lei), che certo non era una fangirl, ammetteva «Non conosco donna, ragazza o bambina che non ami guardare Paul Newman». Erica Jong, altra icona del novecento americano, più abituata a parlare chiaro e ad andare sul personale rispetto alla Kael, scriveva esattamente cinquant’anni fa che da ragazza aveva visto sei volte di seguito La gatta sul tetto che scotta, e quando Newman appariva sullo schermo «Made me cream in my jeans every time» (lascio la traduzione a chi legge). Intendiamoci, il fascino di Paul Newman non colpiva solo le donne. Ecco il racconto di Richard Price, sceneggiatore del Colore dei soldi, che lo incontrò in California nel 1985: «Eravamo a Malibu, io e Marty Scorsese, due newyorchesi in spiaggia. Marty seduto lì con la sua giacca e il suo spray nasale [Scorsese ha sempre sofferto di asma, ndr], io che fumavo una sigaretta rannicchiato, e tossivo. E poi arriva Newman, tutto abbronzato, una pubblicità della crema solare vivente, mangiandosi un pompelmo. Due pagliacci di New York davanti al platino di Hollywood». Anche nei ricordi di Price, l’oro non era abbastanza: serviva il platino, per descrivere una star di quella caratura. E di quella bellezza assoluta. Poco importava che, in effetti, Newman abbia sempre preferito i fiumi del Connecticut all’oceano californiano.
A dirla tutta però, non avrei voluto cominciare dalla bellezza, a raccontare Paul Newman. Perché è scontato, certo, ma anche perché appare in qualche modo disdicevole: abbiamo introiettato una specie di senso di colpa che ci fa pensare che sottolineare la bellezza di un artista sia riduttivo, sempre e comunque. Sono del resto le stesse star, molto spesso, a impegnarsi giorno e notte per sfuggire alla loro immagine di sex-symbol. Newman ha sempre trattato con sufficienza chi gli faceva notare la sua bellezza, nonostante quest’ultima sia rimasta stellare fino alla vecchiaia: gli occhi azzurri, naturalmente; la mascella importante; la bocca ben disegnata; il naso aggraziato; il fisico che ha invogliato molti registi a mostrarlo a torso nudo. Newman cercava di non darle importanza, maestro di quella forma di pubblica modestia, tinta di autoironia, che poi è diventata tratto tipico delle icone maschili di Hollywood fino a George Clooney. La sua autobiografia si intitola Vita straordinaria di un uomo ordinario, del resto.
Bisogna poi mettersi d’accordo su cosa significhi “ordinario”, nel suo caso.
È pur vero che, almeno all’inizio della sua vita, non sembrava un tipo tanto straordinario. Aveva sempre voluto essere un atleta, un giocatore di football o di baseball, ma al liceo era basso e magro, quindi finiva spesso scartato dalle squadre scolastiche. A diciott’anni si arruolò brevemente in Marina, ma era talmente piccolo che in divisa lo chiamavano “boy scout”. Solo in seguito la natura e la sua testardaggine ebbero la meglio: a vent’anni era cresciuto di quindici centimetri, aveva iniziato a recitare alla Yale Drama School. Nonostante avesse un certo successo con le donne, era ancora lontanissimo dall’essere considerato un sex symbol: arrivato a New York, si sentì dire dal regista teatrale Joshua Logan che non avrebbe potuto interpretare un ruolo di seduttore perché «non avevo alcuna carica sessuale». Fu a questo punto che Newman diede una delle prime prove del suo costante desiderio di miglioramento: si convinse della necessità di diventare più prestante, e iniziò ad andare in palestra con più convinzione di un moderno fitness influencer. Ma addominali e pettorali (i secondi erano più di moda, ai tempi) non sarebbero bastati, e allora ecco l’idea di iscriversi all’Actor’s Studio, dove Lee Strasberg stava coltivando una generazione d’oro (di platino, direbbe Richard Price): in quegli studi oltre a Newman c’erano James Dean, Geraldine Page, Eli Wallach e Marlon Brando (al quale fu spesso paragonato, soprattutto dai detrattori, all’inizio della carriera). Newman ha sempre raccontato di aver assorbito le capacità attoriali dai suoi compagni di corso, osservandoli e imitandoli, ma è possibile che si tratti solo dell’ennesimo esercizio della già citata modestia. Sia come sia, le proposte per i ruoli da protagonista cominciarono ad arrivare.
Il primo tentativo, però, fu assai poco amato dalla critica e dallo stesso Newman: era Il calice d’argento, improbabile peplum riassunto dal Dizionario dei film di Paolo Mereghetti come insieme di «avventure bibliche inverosimili e involontariamente umoristiche». Paul se ne vergognò per tutta la vita: negli anni successivi, all’apice della sua fama, quando una televisione di Los Angeles programmò il film per sette sere di seguito, lui comprò una pagina di Variety dove annunciava «Paul Newman si scusa tutte le sere, questa settimana, su Channel 9». Ovviamente, dopo quella pubblicità, l’audience dell’emittente andò alle stelle: uno dei migliori attori della storia di Hollywood forse non era altrettanto abile nel capire i meccanismi del marketing.
Dopo Il calice d’argento, le cose cominciarono ad andare meglio: in un paio d’anni, dal 1956 al 1958, arrivarono Lassù qualcuno mi ama, La lunga estate calda e La gatta sul tetto che scotta. Soprattutto queste ultime pellicole furono particolarmente importanti: la prima segnò l’incontro cinematografico (quello personale era avvenuto sui palcoscenici teatrali qualche anno prima) con Joanne Woodward, che sarebbe stata sua moglie per il successivo mezzo secolo; la seconda, insieme a Liz Taylor, lo trasformò in star galattica.
Nei quarant’anni abbondanti successivi – il suo ultimo ruolo è in Era mio padre di Sam Mendes, ed è strepitoso – Newman ha gestito la sua carriera e la sua immagine pubblica con incredibile grazia. È riuscito a essere un simbolo sia per l’America più tradizionalista (il suo matrimonio incrollabile, le sue amicizie sincere, come quella con Robert Redford, il rifiuto della vita hollywoodiana) sia per quella progressista (non ha mai nascosto le sue simpatie per il partito democratico e per i movimenti per i diritti). Si è guadagnato il rispetto di registi, attori e sceneggiatori: Tennessee Williams diceva che Newman era «terribly good». Ma soprattutto quello del pubblico: era raro che qualche fan cercasse di strappargli i vestiti di dosso, come succedeva ad altri. Si favoleggia che durante una pausa delle riprese di L’inferno di cristallo, Newman se ne andò a fare una passeggiata per le strade, fuori dagli studi della Fox: quando spuntò dai cancelli, i fan che si trovavano all’ingresso non lo assalirono, ma si limitarono ad applaudire educatamente. Chiamiamolo star power, anche quello portato a un livello superiore: Newman è stato capace di farsi adorare, desiderare, ammirare, rispettare. E il resto, ciò che non era altrettanto positivo, di farlo dimenticare, a partire dai suoi problemi di alcolismo (certi ruoli, tipo quello del Verdetto, non erano casuali).
È una banalità, dire che le star di oggi non potranno mai competere con quelle di un tempo. Però è difficile non pensarlo, quando si (ri)vedono sullo schermo gli occhi di Paul Newman. Non serve neppure il colore: magia, funzionano anche in bianco e nero.
Il colore dei soldi
Film 24.01.2025, 23:25