Cinema

Peter Weir non è solo quello del Truman Show

Gli 80 anni di uno dei grandi protagonisti della New Wave del cinema australiano: i suoi film sembrano diversi, in realtà è sempre lo stesso

  • Ieri, 14:14
Peter Weir
Di: Michele Serra

Ho sempre detestato ”L’attimo fuggente”. Sin dalla prima volta che mi è passato davanti agli occhi, in una prima serata di TV privata, nei tardi anni Novanta. Credo non fosse un fatto tecnico, ma personale: detestavo la melassa melodrammatica e il professore così perfettamente empatico e progressista, la retorica sui “liberi pensatori” (che forse non a caso oggi è il modo con cui si autodefiniscono i peggiori troll di internet). Detestavo tutto, nonostante la confezione fosse impeccabile. Quando, poche stagioni dopo, mi sono trovato davanti a “The Truman Show” (finalmente in una sala), non ero stato neppure sfiorato dall’idea che l’autore di quei due film potesse essere la stessa persona.

Solo in seguito, negli anni, ho capito che Peter Weir era uno dei rari autori capaci di lasciare un’impronta unica sui film che toaccava, pur frequentando generi radicalmente diversi. Certo, continuerò ad adorare “Master & Commander”, e mai rivaluterò “L’attimo fuggente”. Ma ci sono fili rossi che uniscono pellicole, storie e personaggi apparentemente lontani, cuciti dalla mano di Peter Weir.

Tredici film in quarant’anni di carriera, se non di qualità, senza dubbio di varietà kubrickiana: c’è la surreale commedia horror di “Le macchine che distrussero Parigi”, il fanta-thriller onirico di “L’ultima onda”, il misterioso dramma di “Picnic ad Hanging Rock”, il romanticismo, l’avventura, la politica di “Un anno vissuto pericolosamente”, la commedia di “Green card: Matrimonio di convenienza”, tanto per non ripetere i titoli dei grandi successi già citati poche righe più sopra.

Tutti opera di un ragazzo nato a Sidney nel 1944, che della sua infanzia ricorda l’amore per i fumetti e quell’abitudine del padre di raccontargli storie della buonanotte di sua invenzione, che prendevano la forma di veri e propri feuilleton (o serie tv, se preferite un riferimento più contemporaneo) a puntate. Poi universitario a Sidney, dove entra a far parte di un gruppo teatrale appena prima di lasciare gli studi. Sotto i trent’anni si fa le ossa lavorando per alcune reti televisive australiane, si sposa e si occupa di documentari, fino all’esordio nel 1974 con “Le macchine che distrussero Parigi”. Weir è ormai un uomo, e un regista con una passionaccia per Polanski, Bergman, Kurosawa e per lo stesso Kubrick. Dice che quello che lo interessa di più, in generale, sono gli autori capaci di lavorare “nel solco del cinema commerciale, ma in modi interessanti”: è la direzione che lui stesso seguirà sempre nel corso della sua carriera, anche se il suo primo film in realtà si adatta molto bene al contesto indipendente e senza compromessi della new wave del cinema australiano di quegli anni, di cui lui e George Miller (“Mad Max”) sono gli esponenti più in vista – sono anche i maggiori responsabili del lancio della carriera di Mel Gibson, ma questa è un’altra storia.

La parabola della carriera di Peter Weir segue il suo spostamento verso il centro – geografico e artistico – di quel “cinema commerciale” di cui scrivevo poche righe più sopra, ed è innegabile che i suoi film siano diventati meno spigolosi e più adatti al gusto del grande pubblico (si può notare ad esempio come le pellicole americane abbiano spesso finali compiuti, rispetto a quelli sospesi e improvvisi del periodo australiano), a mano a mano che Weir diventava uno degli uomini d’oro di Hollywood, amatissimo dalle grandi case di produzione anche perché le sue richieste riguardo agli effetti speciali sono sempre state relativamente modeste (con la notevole eccezione di “Master & Comander”), il che contribuiva a tenere i budget sotto controllo.

Era del resto l’elemento umano, più di ogni spettacolare artificio visivo, ciò che interessava mettere in scena a Weir: se lo paragoniamo a registi coevi come Steven Spielberg, troviamo la stessa capacità di mischiare e rinnovare i generi (basta pensare, ad esempio, al modo in cui Witness mette insieme il thriller con alcune strutture tipiche del cinema western), ma realizzata mettendo in discussione il ruolo e le motivazioni dei protagonisti, invece che aumentando le dimensioni e la scala dello spettacolo.

Spesso infatti i protagonisti dei film di Peter Weir vivono esperienze da pesce fuor d’acqua, o, ancora meglio, si trovano nella scomoda posizione di dover mettere in relazione mondi diversi: spesso geograficamente (Europa e America, Europa e Oceania, oriente e occidente…), ma anche in un senso più ampio – la realtà e il sogno (“L’ultima onda”), oppure il mondo simulato (“The Truman Show”). È un tema che colpisce inevitabilmente in modo molto potente anche gli spettatori di oggi, epoca in cui le tensioni tra le diverse culture sono più forti che mai, e in cui siamo costretti a confrontarci quotidianamente con realtà altre (spesso tecnologiche, artificiali) rispetto a quella concreta della vita materiale. Credo sia uno dei tanti motivi per cui il cinema di Peter Weir, apparentemente così tradizionale nel suo modo di raccontare (e del resto, diceva lui, raccontare una storia in modo semplice e riconoscibile è la cosa più difficile per un regista), nasconde un fiume carsico di sottotesti che lo rendono indiscutibilmente moderno.

È quindi doppiamente un peccato, che Weir abbia confermato – l’ultima volta, durante un recente evento alla Cinémathèque Française di Parigi (non quella americana del suo primo film, quella vera!) – di essersi ormai alzato dal tavolo del cinema, chiosando: «Non ho più energie». Probabilmente, dunque, “The way back” rimarrà il suo ultimo film, uscito ormai quattordici anni fa: come suggerisce il titolo, un’Odissea fisica e spirituale, in cui personaggi di varia provenienza geografica e culturale fuggono dalla reclusione (siberiana) verso la libertà (in India). Ancora una volta un film diverso dai precedenti, ancora una volta un film di Peter Weir, con un viaggio di liberazione (“The Truman Show”), mondi diversi (“Un anno vissuto pericolosamente”), la potenza della natura che incombe (“Master & Commander”)...

Come di alcuni scrittori si dice scrivano sempre lo stesso libro, si potrebbe dire di Weir che in fondo abbia girato sempre lo stesso film. Un film, però, che non ci stanchiamo mai di vedere. Tranne, forse, quando un certo professore fa strappare tutti i libri ai suoi studenti…

Il cinema del fututo – The Truman Show

Charlot 22.10.2023, 14:35

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