Cinema

Pistole finte, rivoluzione vera

Denzel Washington compie 70 anni: ha cambiato il mondo dello spettacolo americano, aprendo le porte a una generazione di cinema black

  • 28.12.2024, 08:06
Denzel Washington

Denzel Washington

  • Keystone
Di: Michele Serra 

«Il nostro cognome di famiglia è Washington. Fate i vostri conti.»
È una delle tante cose divertenti che Denzel Washington racconta nel lungo articolo scritto in prima persona e pubblicato da Esquire in vista del suo settantesimo compleanno. In realtà, si dice che molti afroamericani abbiano quel cognome (oggi, chi si chiama Washington negli Stati Uniti è nero nel 90% dei casi) perché i loro antenati in schiavitù, dopo la liberazione, se lo sono scelto. Con la fine della Guerra Civile, infatti, gli schiavi emancipati poterono scegliere il loro cognome, e quello del primo presidente era probabilmente il più conosciuto e autorevole che esistesse nella seconda metà dell’Ottocento americano. Ma è un’altra storia.
Dicevamo, di Denzel Washington e di quel meraviglioso articolo.
«Lasciate che vi dica innanzitutto che mio padre era un uomo di Dio», continua l’attore, «Un uomo molto gentile, un uomo grande e grosso che faceva tre lavori. Si alzava alle quattro del mattino, quindi quando andavo a scuola era già uscito. Tornava a casa a metà pomeriggio, poi c’era il secondo lavoro, e poi faceva il guardiano notturno ai grandi magazzini S. Klein a Yonkers, dove probabilmente dormiva.» […] «Così non dovevamo mai preoccuparci per il cibo. Non fatemi dire quanto sia facile la vita per la gente di oggi.» […] «Mio padre era un gentiluomo, un bell’uomo, carismatico. Ma non istruito, nossignore. Se si trovava a dover leggere qualcosa, allora prendeva tempo… Ricordo una volta che mia madre voleva mostrargli qualcosa sul giornale, e allora lui fece finta di cercare gli occhiali, finché lei non disse “Dallo a me”.»
Si tratta, com’è facile intuire da queste poche righe, di una storia molto novecentesca, e anche quintessenzialmente americana, visto che finisce con Denzel che, nel 2000, può permettersi di lamentarsi per non aver vinto il suo secondo Oscar (il premio quell’anno va a Kevin Spacey per “American Beauty”). Rags to riches nella migliore tradizione hollywoodiana.

Ma c’è molto di più, intorno a una star che è riuscita ad andare oltre il suo ruolo di “ambasciatore etnico”: in un’epoca in cui gli stereotipi razziali erano ancora forti nel sistema degli studios, Washington ha rifiutato ruoli anche piuttosto redditizi, ma che sembravano scritti per un generico “attore nero”, invece che per lui. E ha cercato sempre, all’apice della sua carriera, di interpretare personaggi che avessero poco a che fare con il colore della pelle: il giornalista del “Rapporto Pelican”, il detective tetraplegico del “Collezionista di ossa”. Ovvio che – è pur sempre l’America – la questione razziale sia rimasta centrale nella sua storia professionale: tornando agli Oscar, ad esempio, Denzel rimane negli annali come uno dei protagonisti della serata del 2002 che ha visto premiati tre attori neri, momento più unico che raro nella storia dell’Academy. Lui, Halle Berry (attrice protagonista) e Sidney Poitier (onorario), quella sera hanno messo in scena un passaggio di testimone tra generazioni. E pazienza se la statuetta ricevuta per “Training Day” è sembrata a molti (ad esempio Spike Lee) un risarcimento tardivo per lo sgarbo risalente a dieci anni prima, quando l’Academy preferì, al suo Malcolm X, l’ex-militare stanco di vivere interpretato da Al Pacino in “Scent of a Woman”.
Intendiamoci, gli Oscar non sono tutto, ma rimangono un indizio importante nella vita di una cosiddetta star. Nel caso di Denzel Washington, indizio della sua capacità di fare quello che è più importante proprio per le star hollywoodiane di ogni epoca: incarnare gruppi sociali in precisi momenti storici, dando rappresentazione a loro e alle contraddizioni ideologiche che possono emergere all’interno della società stessa. Appaiono estremamente funzionali a questo obiettivo ruoli come il pugile di “Hurricane”, l’allenatore di “Il sapore della vittoria”, il carcerato di “He Got Game”.

Denzel Washington è un pezzo importante della cosiddetta New Black Aesthetic, sviluppata tra gli Ottanta e i Novanta da una generazione di musicisti, atleti, scrittori, politici, accademici afroamericani (l’acronimo NBA, che ricorda lo sport “nero” per eccellenza negli Stati Uniti, il basket, probabilmente non è casuale). L’immagine di star di Denzel Washington è una delle schegge di quel passaggio storico, che tiene insieme registi come John Singleton o Spike Lee e musicisti come Ice Cube o Dr. Dre, all’interno di una generazione che fa da ponte tra il movimentismo dei combattenti per i diritti civili e l’individualismo dei rappresentanti della cultura hip-hop che ha fagocitato il pop americano negli ultimi trent’anni, con tutte le contraddizioni che ne conseguono.
Nonostante il suo desiderio di essere un grande attore al di là del colore della pelle, Washington è tutt’altro che inconsapevole del suo ruolo rivoluzionario all’interno del mondo dello spettacolo americano: una volta ottenuti i primi successi negli anni Novanta, ha cercato collaborazioni con altri registi neri, e attraverso la sua casa di produzione Mundy Lane Entertainment ha lanciato la carriera di alcuni di quelli che poi sono diventati importanti executive neri, perfettamente integrati all’interno degli studios. È anche grazie al suo profilo di star-imprenditore se molti professionisti del cinema afroamericani si sono inseriti nel sistema dei media mainstream, trasformando questi ultimi e la cultura pop mondiale di conseguenza (sembra un’esagerazione, non lo è).
Tutto questo senza dimenticare come si fa a portare la gente al cinema, pellicola dopo pellicola (ok, oggi sono file, ma comunque). In occasione del suo sessantesimo compleanno era infatti facile notare come, nonostante l’età già non verdissima, la star avesse messo a segno un filotto di undici film capaci di incassare più di venti milioni di dollari nel primo weekend di programmazione nelle sale. E l’ultimo di allora ne aveva portati a casa quasi 35: era il primo capitolo della saga “The Equalizer”, che diventerà il simbolo dell’ultimo decennio della sua carriera.

La trilogia di “The Equalizer” – incasso combinato, quasi 900 milioni di dollari – è infatti l’ultimo salto riuscito della carriera di Denzel Washington, che pur essendosi trovato spesso a interpretare thriller e polizieschi, è diventato un action hero certificato solo dopo i sessanta. L’avventura dei film d’azione è arrivata al momento giusto, dopo che Washington aveva raggiunto l’apice delle sue potenzialità come star drammatica “classica” (se mai questa parola ha un qualche significato), ed era quindi in grado di offrire il suo contributo al genere che qualcuno, non senza umorismo, ha definito dadsploitation: film d’azione con protagonisti anziani, certo, ma soprattutto storie di vendetta condotta con la necessaria gravitas, e con metodi piuttosto tamarri. L’età non giovanissima rende questi protagonisti apparentemente vulnerabili, e di conseguenza più sorprendenti nel superare difficoltà impossibili. Se poi volete aggiungere che vedere Denzel Washington (o Liam Neeson, che pur se a un livello inferiore ha compiuto un percorso simile) far fuori uomini molto più giovani di lui può andare incontro alle fantasie dei padri sessantenni preoccupati per il declino della loro rilevanza nella società, della loro influenza all’interno della famiglia e della loro virilità… beh, potreste aver trovato la spiegazione di questo successo: questi uomini vogliono vedere sullo schermo una versione migliorata di sé stessi. Ma al di là di analisi del genere, mi interessa qui far notare come Denzel Washington non si sia limitato a ripetere la formula di “The Equalizer”, ma abbia utilizzato il suo successo per continuare a perseguire anche progetti più classici, drammatici, d’autore, come “End of Justice”, “Barriere” o il “Macbeth” di Joel Cohen. Ha sempre voluto essere ricordato prima di tutto come un grande attore, poi come una star capace di far divertire il pubblico, e solo per ultimo come l’uomo capace di cambiare le cose per gli afroamericani nello spettacolo americano. È riuscito a essere tutte e tre le cose, e a fare una piccola rivoluzione. Senza imbracciare armi, ma solo le pistole fasulle di Hollywood.

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  • Michele R. Serra

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