Sembra strano a dirsi, soprattutto a motivo della sua fama di “gran bugiardo” e della quasi diabolica capacità di fornire informazioni fuorvianti sui film che stava girando e sulla dimensione autobiografica della sua opera. Eppure la verità più vera su Federico Fellini l’ha detta lo stesso Fellini in un’intervista -stranamente poco nota e poco citata- concessa nel 1963, dopo l’uscita nelle sale di 8½, a un giornalista improvvisato ma di grande pregio: il nobile e dandy spagnolo nonché attore per diletto José-Luis de Vilallonga, che due anni prima aveva recitato in Colazione da Tiffany nel ruolo del miliardario brasiliano De Silva e due anni dopo si sarebbe meritato la piccola ma importante parte del “matador” José in Giulietta degli spiriti.
L’intervista in questione, realizzata per conto di un’agenzia di stampa francese e uscita in volume solo nel 1994, un anno dopo la morte di Fellini, è la quarta di sette lunghe conversazioni che talora assumono il tono della confessione, perché il grande regista, all’apice della fama internazionale, si svela come non aveva mai fatto fino a quel momento. A un certo punto, cercando di mettere ordine nei ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza a Rimini, che un decennio dopo sarebbero in parte confluiti in Amarcord, Fellini parla del fatidico primo innamoramento che aveva provato all’età di quindici anni per una ragazza dodicenne di nome Bianchina.
Stando al racconto di Fellini, i due si diedero appuntamento sotto l’Arco d’Augusto, uno dei luoghi simbolici di Rimini, e il giovane Federico cominciò a inventare e favoleggiare, costruendo una sorta di piccola mitologia privata. Il risultato fu di decisiva importanza per la sua futura carriera come regista e inventore di storie: «Bianchina amava alla follia quei miei racconti. Fu in quel momento che mi accorsi con stupore che la vita è più reale quando la si racconta che quando la si subisce». Si tratta di una dichiarazione di poetica che è anche una visione del mondo, davvero perfetta nella sua laconicità. Il pensiero corre più o meno involontariamente alle parole di un altro grande reinventore della “realtà”, Gustave Flaubert: «L’unico modo per rendere sopportabile la vita consiste nell’evitarla». Le parole sono un po’ diverse, ma la sostanza è la stessa.
Se si aggiunge il fatto che l’episodio viene raccontato circa un trentennio dopo, con una più o meno inevitabile percentuale di reinvenzione, ci si avvicina al nucleo dell’arte di Fellini e della sua idea della creazione intesa appunto come reinvenzione: si vive sempre “dopo”, di modo che la creazione viene “dopo” la fine di qualcosa e ricrea/reinventa la realtà in forma stilizzata e quindi potenziata. E’ una realtà non più “reale” nel senso comune del termine, ovviamente, ma in compenso molto più vera, al punto che sorgono un paio di domande. Ma la “realtà” è davvero reale? Cos’è in ultima analisi la “realtà”? Dal “gran bugiardo” Stendhal al “gran bugiardo” Fellini, sono le domande di fondo della cultura moderna e di ogni riflessione che non si limiti a registrare l’esistente come unico orizzonte pensabile e immaginabile.
Comunque si voglia rispondere alle domande (e ammesso che si possa rispondere), la “realtà” in Fellini è sempre reinventata e rimodellata. La scena finale de La dolce vita, ad esempio, col mostro marino sulla spiaggia, riproduce un evento realmente accaduto nel 1934 nella zona di San Giuliano di Rimini, in località Barafonda, quando si era spiaggiato un capodoglio, ma il tutto è stato girato nella pineta e sulla spiaggia di Fregene. Anche il conturbante personaggio della Saraghina in 8½ si rifà a un’esperienza vissuta dal giovane Fellini negli anni trascorsi a Fano dopo la scuola elementare (o forse a Rimini nel severissimo collegio dei Salesiani, nella zona del lungomare), ma anche in questo caso la scena è stata girata sul litorale del Lazio, nella zona di Fiumicino.
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C’è perfino il dubbio che l’esperienza sia stata vissuta in un collegio di Chieti da uno dei suoi grandi sceneggiatori dell’epoca, Ennio Flaiano, e che Fellini (grande “ladro” di esperienze altrui, oltre che “gran bugiardo”) l’abbia fatta propria e inserita nel film. Ma gli esempi sarebbero davvero tantissimi. Si capisce insomma perché a Rimini, allora come oggi, cinquant’anni dopo, un film come Amarcord viene accolto almeno all’apparenza con molte riserve: «Non era così», dicono i riminesi, aggiungendo che è tutto inventato. E invece è tutto vero, ma di una verità ricreata dalla memoria e dall’immaginazione, e quindi più vera di ogni verità misurabile e dimostrabile. Tutti i personaggi presenti nel film (Titta, il “puro folle” Giudizio, la Gradisca, i grotteschi professori del liceo, lo zio “pataca” Lallo, solo per citarne alcuni) sono autentici, nel senso che sono veramente esistiti nella Rimini del giovane Fellini, così come sono autentici i luoghi e le situazioni: la “fogheraccia” (la festa di fine inverno che apre il film), le cosiddette “manine” che annunciano l’arrivo della primavera, i turisti nordici che fanno il bagno fuori stagione nelle gelide acque dell’Adriatico, i giovinastri che abbordano le turiste tedesche e scandinave raccontando fandonie e bullandosi di storie inverosimili, il famoso “nevone” del 1929, il provincialismo che sfocia in un fascismo da operetta.
Ma nella reinvenzione operata da Fellini, anche grazie al suo amico e quasi compaesano Tonino Guerra, che collaborò alla sceneggiatura, i personaggi sono diventati tipi antropologici, espressioni di una condizione dell’anima, mentre i luoghi sono diventati lo sfondo di una tragicommedia e perfino di una farsa che potrebbe svolgersi -e di fatto si svolge- ovunque e in ogni epoca, non solo nel “borgo” sull’Adriatico nell’Italia fascista dei primi anni Trenta. E’ anche in questo modo che si spiega il successo mondiale del film. Ma per capirlo meglio bisogna fare un passo indietro di vent’anni, anche se la città e l’epoca sono le stesse.
Ogni “viaggio” è in ultima analisi un viaggio verso casa, diceva un grande romantico come Novalis, straordinario inventore e reinventore di “realtà”. L’episodio fondante del ritorno/non ritorno a Rimini, e in definitiva del “viaggio” e di tutto il cinema di Fellini, è costituito da I vitelloni, del 1953, il primo film nel quale Rimini diventa oggetto di una rimemorazione che diventa proiezione immaginativa e infine si risolve in uno straniamento spazio-temporale, nel senso che è Rimini ma non è veramente Rimini: una specie di “nessun luogo”, insomma, un po’ come la fantomatica “Pologna” in Ubu re di Alfred Jarry. Per inquadrare Amarcord è quindi necessario partire da I vitelloni.
Sono infatti molto rivelatrici le considerazioni svolte da Fellini relativamente alla genesi del film, perché fanno capire in che modo l’esperienza e il vissuto vengano rimodellati in racconto, per assumere infine una connotazione emblematica. E poi permettono di inserire una delle scene più celebri (verrebbe quasi da definirla la “scena originaria” di Fellini, che contiene e spiega tutte le altre, soprattutto le scene invernali di Amarcord) all’interno di una dimensione molto concreta: «L’idea de “I vitelloni” mi è venuta ripensando ai vuoti pomeriggi invernali, a Rimini, quando in tre o quattro andavamo a vedere il mare, sul molo. E lì, sotto quel cielo gonfio di nubi, col vento gelato che tagliava la faccia, qualcuno domandava: “Ma se adesso venisse un signore, e ti desse diecimila lire, tu lo faresti il bagno?” E si andava avanti così…».
È anche in questa precisa percezione -riconducibile però a un voluto sfalsamento prospettico- che la Rimini reinventata da Fellini ne I Vitelloni (e in seguito in Amarcord) si unisce alla Pescara reinventata dalla sensibilità e dalla penna sopraffina di Ennio Flaiano, che svolse un ruolo fondamentale nella redazione del soggetto e poi della sceneggiatura. Perché è davvero difficile esprimere con maggiore incisività (Flaiano), e tradurre in immagini che si sono poi trasformate in una cifra simbolica (Fellini), l’idea di una certa provincia italiana -ma a ben vedere diffusa in tutto il mondo, in quanto specchio della condizione umana- con la sua quotidianità senza scampo, le sue attese e speranze continuamente differite e deluse, il senso del tempo e della vita che non vanno da nessuna parte e alla fine sfumano nell’irrealtà, nel vuoto, nel nulla, come accade nella scena finale di Amarcord, quando di un anno di vita nel “borgo” rimane soltanto il rumore del vento.
Come le tre sorelle di Cechov, per le quali la tanto vagheggiata Mosca è destinata a rimanere una proiezione immaginativa, oppure come il tenente Drogo nel Deserto dei Tartari di Buzzati, che nella Fortezza Bastiani si consuma nell’attesa di una gloria che non arriverà mai e la cui immagine si deforma fino ad assumere i contorni del passare del tempo e infine della morte, anche i personaggi di Amarcord vivono di fantasie che non si realizzeranno mai e anzi si scontrano continuamente con la realtà effettuale, rappresentata dall’oggettiva strettezza del “borgo”, dall’asfittico clima sociale e culturale, non da ultimo dalla perversa sintassi interiore costituita da quello che Carlo Levi aveva definito “l’eterno fascismo”.
Fellini, da parte sua, proprio parlando di Amarcord, ha perfettamente sintetizzato la questione (che è la questione fondamentale del film) in questi termini: «Le eterne premesse del fascismo mi pare di ravvisarle nell’essere provinciali, nella mancanza di conoscenza dei problemi concretamente reali, nel rifiuto di approfondire, per pigrizia, per pregiudizio, per comodità, per presunzione, il proprio rapporto individuale con la vita. Vantarsi di essere ignoranti, cercare di affermare se stessi o il proprio gruppo non con la forza che viene dall’effettiva capacità, dall’esperienza, dal confronto con la cultura, ma con la millanteria, le affermazioni fini a se stesse, lo spiegamento di qualità mimate invece che vere». Un solo personaggio riesce ad abbandonare il “borgo”: la Gradisca, che dopo aver tanto sognato i divi del cinema americano si unisce in matrimonio a un carabiniere e va a vivere a Campobasso. E’ davvero «l’essenza di Cechov» nel «nulla comune», come ha scritto il già ricordato Flaiano.
Oltre che un “gran bugiardo”, Fellini è stato un grande antropologo. In Amarcord compare infatti il tipo antropologico del “pataca”, che sembrerebbe una prerogativa riminese o al massimo romagnola. Cos’è mai il “pataca”? Tra le tante definizioni, ce n’è una -suggerita da Tonino Guerra- che ne coglie il significato più profondo e autentico: «In quell’eterna periferia che è la vita umana, il “pataca” è colui che si sente al centro del mondo». Si capisce, quindi, perché Fellini sia considerato un genio universale. Perché “pataca” del genere si incontrano un po’ ovunque, non solo nella sua Rimini. Anzi, si potrebbe dire che alla fin fine, col nostro povero “io” gonfio di nulla -che ci portiamo appresso tutta la vita nell’eterna periferia, più grotteschi che tragici, come se fosse chissà cosa-, siamo un po’ tutti dei “pataca”.
30 anni senza Fellini
Alphaville 01.11.2023, 12:35
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Resta infine da chiedersi cosa rimanga della sostanza più intima del film a cinquant’anni dall’uscita nelle sale. La risposta è paradossalmente poco incoraggiante: il film è invecchiato benissimo e non dimostra affatto mezzo secolo di vita, quando invece sarebbe bello considerarlo quale poetica ed elegiaca testimonianza di un tempo ormai lontano. La provincia, intesa principalmente come condizione dell’anima, è rimasta tale. E tale è rimasto anche il “borgo”, nell’eterna Italietta dell’incultura nascosta sotto la foglia di fico dell’approssimazione, della furberia, del tirare a campare.
Ma soprattutto è rimasta tale -e si perfino infittita- la “nebbia” come metafora. Nel trattamento originale del film, scritto insieme a Tonino Guerra e uscito alcuni mesi prima dell’uscita nelle sale, ci sono alcune scene che non sono mai state girate (la tempesta di sabbia sul “borgo”) oppure sono state escluse in fase di montaggio (la ricerca dell’anello nel liquame delle fogne e un surreale quanto grottesco dialogo tra i “pataca” del luogo e un viaggiatore cinese in un bar). Prendendo spunto da un rimprovero che gli muovevano di solito i suoi produttori, e che Fellini ha ricordato nella scena conclusiva di Intervista («I tuoi film si chiudono sempre senza una luce di speranza»), si potrebbe forse immaginare un finale alternativo, con un’altra idea della “nebbia” e un approccio alla “realtà” fatto di affezioni e incantamenti, di una pienezza di vita mai disgiunta dal senso del tempo e della morte e dalla tristezza immanente a ogni cosa umana. E due nuovi personaggi, che si chiamano Rico e Zaira.
Rico e Zaira sono i protagonisti del racconto in versi (scritto sia in italiano che in dialetto romagnolo) Il viaggio / E’ viàz, del 1986, uno dei vertici della produzione poetica di Tonino Guerra. Un lettore d’eccezione e felliniano “doc” come il compianto Gianni Celati, nel suo Verso la foce, lo ha inquadrato in maniera molto penetrante: «“Il viaggio” è il racconto di due vecchi sposi che abitano a non molti chilometri dal mare, ma non l’hanno mai visto, e allora decidono un giorno di andare in camminata a vederlo. Sul loro tragitto, tutto diventa memorabile nello spazio esterno, come quando le cose vengono agli occhi per la prima volta, toccandoci con le loro apparenze. Parole ritrovate sotto gli strati di frasi fatte del parlare adulto: qui ogni frase vibra lievemente, portando un’immagine».
I due anziani sposi partono dal piccolo villaggio appenninico di Petrella Guidi e seguono il corso del fiume Marecchia fino alla foce, a Rimini. Quando infine arrivano al mare non riescono a vedere nulla, perché c’è una nebbia fittissima, come nella scena del nonno in Amarcord: «Ma dove sono? -esclama il nonno- Se la morte è così, non è mica un bel lavoro… Finito tutto! Finita la gente, gli alberi, non ci sono più gli uccelli in aria…». Il nonno prorompe infine in un’esclamazione tipicamente romagnola, che non ha bisogno di traduzione: «In t’el cul!».
Rico e Zaira, invece, si cercano con le mani, si abbracciano come se si fossero ritrovati in quel momento dopo tanti anni, e alla fine si mettono a sedere «sulla sabbia asciutta», facendosi semplicemente portare dalle immagini. O meglio, dall’Immagine: «Stavano con gli occhi / a guardare dentro la nebbia dove faceva più chiaro, / e Rico le diceva di avere pazienza / ché da un momento all’altro arriva il mare». Purtroppo Amarcord -e non solo Amarcord- non finisce così. Ma in quell’immensa provincia che è il mondo, e in quell’immensa periferia che è la vita, è bello pensare che così potrebbe e dovrebbe essere.
