Cinema

Ricordare Pietro Germi

A 110 anni dalla nascita e 50 dalla morte, Pietro Germi è tra registi che più hanno saputo raccontare l’Italia e gli italiani, tra contraddizioni, passioni e critiche feroci

  • 18 luglio, 08:02
pietro germi

Può capitare di non presentarsi agli esami di maturità malgrado l’ottimo rendimento scolastico e di crescere in una famiglia in cui l’arte non è certo il primo pensiero della giornata, ma di desiderare il cinema come si desidera respirare. Capita anche di andare incontro al proprio sogno senza un piano di riserva e, come un predestinato, lasciare un segno indelebile sulla pellicola. Malgrado gli esordi da attore tra Blasetti e Soldati, fu prendere la cinepresa tra le mani che concesse a Pietro Germi di lasciare quel segno. Fu proprio Alessandro Blasetti la guida verso la macchina da presa, prima come insegnante del Centro Sperimentale di Cinematografia, successivamente come mentore sul set di Retroscena (1939), dove Germi esordì come attore e sceneggiatore. Qualche anno più tardi, l’opera prima da regista ne avrebbe delineato peculiarità e ambizioni.

Quando Il testimone (1946) fu distribuito nelle sale italiane, era il neorealismo ad andare per la maggiore, ma malgrado l’insolito soggetto da giallo psicologico le reazioni di pubblico e critica furono positive. “Il nome di questo nuovo regista dev’esser posto accanto a quello di Blasetti”, scriveva Mario Gromo all’uscita del film, ma quello del padre del cinema italiano moderno non era il solo grande nome al fianco di Germi. Accanto a lui, a firmarne la sceneggiatura, c’erano Diego Fabbri e Cesare Zavattini. Come aiuto regista, un Mario Monicelli già maturo. In controtendenza, Germi prese così ad approfondire i generi attingendo ciò che di buono poteva offrirgli il cinema americano, e rielaborandolo in una chiave personale, a tratti toccata dall’estetica neorealista, realizzò Gioventù perduta (1948) e In nome della legge (1949). Qui, Germi si avvalse di sceneggiatori del calibro di Monicelli, Pietrangeli e Fellini, esplorò il poliziesco intingendolo nel “western”, trattò, tra i primi, il tema della mafia, e dichiarò apertamente le proprie doti e ambizioni. I nastri d’argento meritati grazie alle due pellicole non tardarono a proiettarlo in ambito internazionale e con Il cammino della speranza (1950) scritto da Federico Fellini giunse l’Orso d’argento al Festival di Berlino.

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Seguirono pellicole che non sempre convinsero la critica ma che puntualmente non delusero il pubblico, fino a quando, con Il ferroviere (1956), si aprirono gli anni d’oro che proiettarono il regista tra i grandi nomi del cinema internazionale. Paradossale che Carlo Ponti, produttore del film, ne ostacolò in ogni modo la produzione, tanto da “costringere” lo stesso Germi a interpretare il ruolo del protagonista, quello, per l’appunto, del macchinista delle ferrovie Andrea Marcocci. Accusato di populismo da alcuni, il film mostrava la vita proletaria del dopoguerra affrontando temi quali il cambiamento dei valori morali e i contrasti generazionali, suscitando però certe lamentele da una critica di sinistra con la quale il regista non riuscì mai a riconciliarsi. Il problema, secondo il partito comunista nonché certa critica più attenta alla politica che all’estetica, era che il ritratto dell’operaio di Germi non corrispondeva con lo stereotipo delineato dalla sinistra. Analisi discutibili che il regista fu costretto ad affrontare anche col successivo L’uomo di paglia (1958) e dalle quali non riuscì mai a liberarsi, alimentando la sua spiccata antipatia per la critica cinematografica.

il ferroviere, Germi

La svolta spiazzante, dopo le conferme sul genere poliziesco ottenute grazie a Un maledetto imbroglio (1959), tratto dal romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, fu l’imprevedibile sterzata verso la commedia che, con Divorzio all’italiana (1961), trovò uno dei suoi più grandi esempi. Non è un caso che, proprio dal titolo del film, prese piede la definizione di “commedia all’italiana”, genere nostrano nel quale Germi si dimostrò tra i padri indiscussi. Primo film di una trilogia, Divorzio all’italiana è una commedia incentrata sul delitto d’onore inteso come unica soluzione per una società che non ammette il divorzio e insieme a Sedotta e abbandonata (1964) e Signore & signori (1966) tracciò uno spaccato dei costumi sociali degli italiani. Lanciando una giovanissima Stefania Sandrelli e regalando a Marcello Mastroianni una delle sue interpretazioni più memorabili, Divorzio all’italiana ottenne tre candidature agli Oscar vincendo quello per la sceneggiatura originale e confermandosi così il più grande trionfo del regista.

Le analisi di Germi sulla società italiana erano profonde, ironiche, talvolta impietose. La leggerezza di alcuni suoi film faceva da contraltare agli abissi interiori di certi suoi personaggi, alla miseria di ciascuno, nel rapporto di amore e odio verso il meridione e la sua gente. Attento alle proprie creature, non cadeva nella banalità nemmeno quando si affacciava al grottesco o, negli ultimi anni, a quelle pellicole meno apprezzate.

Il declino, sul finire degli anni Sessanta, fu legato più a questioni di salute che non a una mancanza di soggetti o a una risposta del pubblico. L’immorale (1967) guadagnò vari riconoscimenti; Serafino (1968), interpretato da uno spumeggiante Celentano bocciato al primo provino, si rivelò il primo incasso italiano dell’intera stagione, e sebbene Le castagne sono buone (1970) e Alfredo Alfredo non guadagnarono il favore di una critica ormai disprezzata, l’ultimo progetto incompiuto confermò quanto il genio di Germi non era affatto esaurito. Amici miei (1975) sarebbe stato il suo ennesimo trionfo se solo la cirrosi epatica non lo avesse ucciso a soli sessant’anni. Mario Monicelli, che diresse il film dopo la morte dell’amico, volle che prima della scritta che lo indicava come regista comparisse la dicitura “un film di Pietro Germi”. Un ultimo omaggio a un grande del cinema italiano, che al cinema italiano conferì una nuova identità.

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