Sono molti i motivi per cui un preciso luogo geografico, grazie alla reinvenzione letteraria, può trasformarsi in una coordinata esistenziale. Ma è fuori di dubbio che il caso di Montauk, una località che si trova all’estrema propaggine settentrionale della penisola di Long Island, non lontano da New York, è davvero unico. Lo dice simpaticamente anche Volker Schlöndorff nei contributi speciali dell’edizione in Home Video del suo ultimo film, “Rückkehr nach Montauk” (“Ritorno a Montauk”), affermando che la stessa Montauk, grazie all’omonimo libro di Max Frisch del 1975, è diventata non solo un luogo letterario, ma anche una meta di pellegrinaggi per coppie in crisi.
Nato nel 1939 a Wiesbaden, allievo di Louis Malle e profondamente influenzato dalla poetica della “nouvelle vague” francese, Schlöndorff è stato fin dagli esordi il più letterario dei registi che hanno segnato la rinascita del cinema della Germania Federale nel secondo dopoguerra. In effetti, a differenza dei colleghi Fassbinder, Wenders e Herzog, che almeno agli inizi svilupparono un discorso avanguardistico ma anche molto legato alla tradizione cinematografica dell’espressionismo, Schlöndorff ha spesso cercato l’ispirazione in altre forme artistiche, soprattutto nella letteratura. Tra i suoi film tratti da opere letterarie si ricordano l’esordio nel 1966 con “I turbamenti del giovane Törless” di Robert Musil, le riletture di testi decisamente impervi come il “Baal” di Bertolt Brecht -con un giovanissimo Fassbinder già segnato dalle stimmate del “maudit”- e “Michael Kohlhaas” di Henrich von Kleist, nonché la limpida denuncia degli intrecci tra stampa e potere nella Germania Federale ne “Il caso Katharina Blum” di Heinrich Böll. E poi, va da sé, non bisogna dimenticare “Il tamburo di latta”, tratto dall’omonimo romanzo di Günter Grass, col giovane tamburino Oskar Matzerath che negli anni del nazismo a Danzica si rifiuta di crescere in statura, perché il mondo degli adulti, dei “grandi”, gli appare dominato dall’odio e dalla violenza.
Lo scrittore che ha maggiormente influenzato l’immaginario di Schlöndorff è stato con ogni probabilità Max Frisch, che negli ultimi anni di vita fu anche legato al regista tedesco da un profondo rapporto di amicizia. La comunanza di intenti tra Schlöndorff e Frisch trovò una prima e purtroppo unica realizzazione nel film “Homo Faber” con Sam Shepard (“Voyager” nella versione inglese, in seguito uscito anche in versione italiana con l’assurdo titolo “Passioni violente”), che vide la luce nel 1992, poco dopo la morte del grande scrittore zurighese. Tratto dall’omonimo romanzo del 1957, il film racconta la vicenda dell’ingegnere Walter Faber, uno spirito ottusamente positivo che crede soltanto alle verità dimostrabili e si trova sempre più stretto in un reticolo di circostanze casuali, che alla fine -in ossequio a una logica ferrea- lo conducono alla morte.
Ma il libro di Frisch che Schlöndorff ha sempre voluto portare sullo schermo, prima e più ancora di “Homo Faber”, è l’omonimo racconto ambientato nella già ricordata località di Montauk. Il testo, anche se redatto in un continuo alternarsi di prima e terza persona, è fortemente autobiografico e ruota in sostanza intorno a un duplice adulterio (quello dell’io narrante, lo scrittore non più giovane, consumato a Montauk con una giovane americana, e quello della giovane moglie dello scrittore con un giovane letterato americano) e alla conseguente fine di un matrimonio. Il fatto che Montauk, un luogo di grande fascino con la sua lunga spiaggia sormontata da un faro, sia ora una specie di santuario laico per coppie in crisi è un curioso paradosso, ma è anche la cifra più autentica dell’importanza del libro di Frisch, che può essere davvero considerato, come del resto suggeriva lo stesso Frisch, il suo libro più “sincero”. Tuttavia per Frisch, come per tutti i grandi scrittori che hanno raccontato la propria vita reinventandola (viene da pensare a Strindberg, in particolare), “sincerità” non significa restituire il vissuto come in una cronaca o in un diario, ma appunto reinventarli in maniera sincera e letterariamente congrua.
Trasformare in un film una simile trama non è affatto semplice, ma Schlöndorff è riuscito nell’impresa anche grazie alla preziosa collaborazione alla sceneggiatura dello scrittore irlandese Colm Tóibín. Lo ha fatto nell’unico modo possibile, mantenendo il nucleo del racconto ma spostando lievemente le coordinate. Non c’è più l’adulterio, sostituito dalla ricerca proustiana del “temps perdu”, e Montauk si trasforma nel luogo reale e insieme simbolico di questa ricerca. Il protagonista è lo scrittore tedesco Max Zorn (nella sofferta e congeniale interpretazione di Stellan Skarsgard), in totale balìa del “démon du midi”, che approfitta di un soggiorno a New York, in occasione dell’uscita in traduzione inglese del suo ultimo romanzo, per rivivere le esperienze di un quarto di secolo prima e riallacciare i contatti con Rebecca (interpretata da una straordinaria Nina Hoss), la sua compagna dell’epoca. I due (lei nel frattempo è diventata un’avvocatessa di successo) si incontrano e tentano di rivivere il passato trascorrendo un week-end a Montauk, ma giungono alla conclusione che il passato forse non passa, come diceva William Faulkner, ma senza dubbio non torna, perché lo iato che lo separa dal presente è fatto di solitudini, derive individuali, vita che allontana e divide. Max torna quindi a Berlino e Rebecca rimane a New York, entrambi consapevoli che «non è possibile amare un fantasma».
«Dedicato alla memoria di Max Frisch», recita la scritta che accompagna l’ultima immagine -l’aereo in volo che riporta Max a Berlino- e precede i titoli di coda. Il cerchio non si chiude, il passato non passa, però non torna, e alla fine trova conferma la verità che lo stesso Max, in apertura del film, esprime in un suggestivo “camera look”: «Nella vita ci sono soltanto due cose importanti. Le cose che abbiamo fatto e non avremmo voluto fare, e le cose che non abbiamo fatto e avremmo voluto fare». Frisch l’aveva definita “drammaturgia della casualità” (il celebre “was wäre wenn…”), aggiungendo che ognuno, col passare del tempo, si inventa una storia che scambia infine per la propria esistenza. E’ la verità di fondo -banalissima e vertiginosa- di ogni vita e di ogni cosiddetta “biografia”.