Cinema

Sergio Leone

Il regista che traghettò il western nel mito

  • 3 gennaio, 07:12
sergio leone
Di: Mattia Cavadini

La monumentalità di Sergio Leone (3 gennaio 1929 – Roma, 30 aprile 1989) resta inviolata. I suoi film hanno ispirato i più grandi registi contemporanei: dai fratelli Coen a Tarantino, da Coppola a Lucas, passando per Spielberg. Tutti i grandi del cinema degli ultimi anni hanno manifestato, chi in modo plateale chi in modo più velato, il proprio debito verso il maestro del «western all'italiana». Scorsese, in un’intervista, ha addirittura dichiarato di aver visto C'era una volta il West più di 150 volte.

La verità è che Leone è stato insieme vecchio e nuovo, per non dire profetico. Emblema di questa doppia tensione, verso il passato e oltre il presente, è la pellicola Per un pugno di dollari, che all’antica astuzia artigianale seppe unire l'estetica del ricalco, quell’estetica che, estremizzata e dichiarata, avrebbe portato Gus Van Sant al rifacimento di Psycho.

Leone, muovendo fra questi due estremi, di antico artigiano e di fantastico creatore di storie fuori dalla Storia, ha "saltato" il moderno, proprio negli anni in cui la Nouvelle Vague andava affermandosi. Figlio di un regista del muto, ha iniziato la carriera come aiuto del padre e di altri registi d'anteguerra come Gallone, Camerini e Bonnard. Oppure di registi di Hollywood in vacanza in Italia per girare i remake dei filmoni del muto: Quo vadis?, Elena di Troia, Ben Hur.

Il suo debutto registico avvenne nel solco del passato (per non dire del retrò e del kitsch) con Gli ultimi giorni di Pompei. Era la fine degli anni Cinquanta. Mentre altrove germinava la Nouvelle Vague e si facevano esperimenti di modernità e leggerezza, Leone si occupava di cartapesta e polistirolo espanso, di muscoli ferrei e pettinature cotonate.

Intervista a Sergio Leone

RSI Cultura 25.07.2024, 09:07

Poi, dopo Il colosso di Rodi e la partecipazione a Sodoma e Gomorra di Aldrich (il mega-flop che mise fine ai deliranti kolossal italo-holliwoodiani), ci furono due anni di riflessione. Due anni che portarono Leone alla realizzazione di Per un pugno di dollari, catapultando il regista dall’antichità alla post-modernità e all'idea di usare il linguaggio del cinema (inquadrature ampie, silenzi esasperati, dettagli del volto grandi come paesaggi, analessi proustiane) per storie fuori dal tempo, personaggi e mondi la cui esistenza è solo cinematografica.

Per un pugno di dollari non fu il primo «western all'italiana». Ma di certo fu quello che sdoganò il genere e che sancì la cifra di Sergio Leone. Una cifra che ai grandi spazi, ai cavalli e alla frontiera dei western americani, preferì i primissimi piani dedicati agli occhi dei protagonisti, i quali erano in grado di farsi carico di intere scene di suspense e tensione, sostituendosi ai paesaggi e alle battaglie a cavallo.

Sequenze lente, primi piani, inquadrature fisse si sostituivano ai ritmi veloci dei film western dei suoi predecessori. Una genialità propria, ma che fu supportata anche da una serie di eventi fortunati, come l’incontro con un attore allora poco noto, Clint Eastwood (protagonista dell’intera «trilogia del dollaro»), e la sinergia con un compositore geniale, Ennio Morricone, che con la sua musica contribuì alla mitizzazione della pellicole di Leone. Si pensi al fischio che accompagna la cavalcata di Per un pugno di dollari. Ecco, quel fischio è diventato il simbolo del western e ha fatto compiere al suono della musica di genere una rivoluzione, completata poi con Per qualche dollaro in più e Il buono il brutto e il cattivo. Al punto che da allora, anche per gli americani che ovviamente del western sono gli inventori, quelle poche note sono entrate nell'immaginario ufficiale, assurgendo ad emblema del western (per altro citate anche da innumerevoli gruppi rock).

L’incontro tra Sergio Leone e Ennio Morricone è uno dei massimi esempi di quello che può succedere quando musiche e immagini si alimentano a vicenda, si sposano talmente bene da diventare un amalgama indistruttibile. Si pensi anche alla soffusa voce di donna che canta «Sean Sean» in Giù la testa. Bastano due note per riportarci nel pieno della storia. O alla grande sinfonia che accompagna C'era una volta in America, illustrandone il sentimento profondo.

Tullio Kezich su Sergio Leone

RSI Cultura 30.04.2019, 09:23

Ma torniamo alla parabola registica di Leone e cerchiamo di contestualizzarla nel panorama dell'epoca. Ebbene Leone, in direzione contraria rispetto ai giovani registi della Nouvelle Vague, che cercavano di riprodurre in modo nuovo la realtà, capì subito che la realtà non offriva nulla di nuovo per cui decise di ricrearla in laboratorio, non solo con la vecchia sapienza artigianale ma anche con uno spirito da graphic designer, dando origine ad un'originalissima miscidanza fra la manualità dello scenografo e la ipervisualità del produttore televisivo, del pubblicitario o dell’artista della Pop Art.

Mentre il cinema americano si dibatteva in una crisi profonda fra sperimentalismi e crepuscolarismi, e la "Nuova Hollywood" era lungi dallo sbocciare, Leone già prefigurava il cinema della stagione successiva, quello dei Lucas, degli Spielberg e dei Cameron. Insieme a un altro soltanto, forse il più grande, quello Stanley Kubrick con cui avrebbe potuto scambiarsi qualche primissimo piano.

Goffredo Fofi su Sergio Leone

RSI Cultura 30.04.2019, 09:27

Leone, insomma, è stato un grande anticipatore, non solo di stili ma anche di strategie commerciali: dopo Per qualche dollaro in più il suo produttore Alberto Grimaldi fece un'operazione inedita in Italia, un sondaggio demoscopico per capire se il western interessasse ancora: l'80% degli intervistati rispose di sì e il budget di II buono il brutto il cattivo venne triplicato. Contemporaneamente si dilatarono anche le ambizioni e le durate dei film di Leone. Il secondo western dura 30 minuti più del primo, il terzo si attesta attorno alle tre ore. C'era una volta il west dura un po' meno (ma l'edizione restaurata lo ha portato a 181 minuti). Mentre l'ultimo C’era una volta in America supera le tre ore e mezza.

Sono numeri che danno l'idea di un cinema che dilaga e forse travolge il suo stesso autore (come nel caso dell'ultimo progetto di Leone su Leningrado, rimasto vittima della sua ampiezza). Il cinema di Leone. infatti, si perde nell’inseguire (con primissimi piani) i volti dei suoi protagonisti, si diverte a curare le immagini, in un gioco iperealistico che punta al mito. Che siano gli occhi algidi di Eastwood o i sorrisi ancipiti di De Niro, la ricerca del dettaglio del volto, in una luce sospesa, consegna la filmografia di Leone alla sfera di ciò che è fuori dal tempo e che con il tempo non ha nulla da spartire.

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