Torna su Netflix il racconto corale di Sex Education, con una quarta stagione che è anche l’ultima. Per chi l’ha già vista ed è in lutto per la perdita, il Festival delle serie tv ha preparato una carrellata di prodotti affini. Nel frattempo, per chi non vuole voltare pagina prima di aver fatto dei bilanci sulla serie che, più di tutte, ha fatto divulgazione sesso-affettiva provando a supplire alle carenze scolastiche, ecco qui. Cose degne di nota della stagione finale di Sex Education.
Innanzitutto, l’evoluzione del personaggio di Aimee. Aimee è un po’ Luna Lovegood un po’ Cassie di Skins, ma senza il nichilismo allucinato che contraddistingueva quest’ultima. Bizzarra, probabilmente neurodivergente, è il tipo di persona che alla domanda “Non avevi una macchina?” risponde: “Sì, ma ho lasciato che una famiglia di scoiattoli ci vivesse dentro e ora è da riparare”.
In questa quarta stagione Aimee è distante dall’essere il personaggio-spalla di Maeve, come rischiava di sembrare in passato. Finalmente vede e viene vista per quello che è. Da Isaac, altro personaggio indimenticabile. Isaac merita un paragrafo a sé, perché ribalta la narrazione sulle persone con disabilità. Rivoluzionario d’indole (complice anche una prospettiva di classe, è contemporaneamente il più intelligente e il meno abbiente rappresentato in Sex Education), fiero da non prestarsi a narrazioni lacrimevoli, troppo sveglio anche per accollarsi l’altra faccia della medaglia rispetto al “poverino”, cioè quella dell’eroe, del giovane uomo coraggioso. Uno dei punti a favore della quarta stagione è che finalmente si permette di esplorare di più il discorso sulla disabilità, portando una contronarrazione a quella dominante praticamente su ogni fronte. Questo aspetto ci permette di introdurre un altro grande tema della stagione conclusiva: il rapporto tra autobiografia e arte.
Isaac dipinge, e c’è chi presume che lo faccia in relazione al suo stare in sedia a rotelle. Succede che la gente ti guardi, che prenda qualche informazione sommaria su di te, e che decida che il tuo talento nasca dal trauma visibile. Isaac rifiuta con forza e gentilezza questo pregiudizio. «Lo fai perché ti cura?», «No, dipingo perché mi piace dipingere». Punto. Inoltre, la sua arte non è healing, curativa, in prima battuta: è, semmai, di denuncia. Denuncia di un sistema che gli rende la vita difficile. Non la disabilità gli rende la vita difficile: il sistema. La sua è arte funzionale alla lotta, alle lotte. È rifiutare l’occhio di bue, e dire: questo è il mio sguardo su di voi, non il vostro sguardo su di me. State guardando dalla parte sbagliata.
Teen drama
Laser 07.02.2023, 09:00
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Il rapporto tra arte e autobiografia, soprattutto se costellata da ostacoli che qualcuno di diverso da te ha chiamato “traumi”, è ripreso con Maeve. Lei sta finalmente cercando di diventare una scrittrice. E sembra aver trovato un mentore al college, peccato che lui sia un privilegiato pieno di sé. È proprio dal punto di vista del privilegiato che elargisce consigli come: la scrittura ti costa qualcosa. Un sacrificio, una libbra di carne. Quando la compagna di corso scopre il rapporto problematico di Maeve con la famiglia, la mamma e la dipendenza, il fratello che è come sua madre, presume - di nuovo - che lei ne scriverà. Anzi, che lei scriva per questo. Maeve le dà una risposta giustissima: stories can just be stories. Le storie possono essere semplicemente storie. Non si ha l’obbligo di scrivere dei propri traumi. E, se lo si fa, bisogna essere consapevoli che ci sarà qualcuno (come nel caso di Isaac) che proverà a sminuire il lato artistico e intellettuale del lavoro in favore di una narrazione trauma-centrica. Maeve è sveglia, si risparmia la sofferenza. Isaac è ancora più sveglio, e non si lascia spaventare: se vuoi parlare di barriere architettoniche o di discriminazione di genere devi poterlo fare. Al massimo, sarai o proverai a essere un’anomalia imprevista.
Altre cose degne di nota dell’ultima stagione: Hannah Gadsby. La stand up comedian non si limita a un cameo, ma ricopre un ruolo in ogni episodio. Della comica, una delle migliori in circolazione, sono consigliatissimi tutti gli speciali Netflix.
L’ultima stagione di Sex Education sfonda vari tabù immotivati: si parla di disforia di genere, di transizione e di trattamenti troppo costosi (e dell’effetto che ha il non poterseli permettere sulle vite delle persone); di sexting e del fatto che va assolutamente bene non sentirsi a proprio agio con quest’ultimo e dire di no; c’è il discorso sul consenso che fa Otis che è prezioso (“vorrei incoraggiarvi a praticare il consenso entusiasta, cioè la ricerca di un sì felice, e non dell’assenza di un no infelice”). C’è questo assurdo campus autogestito che ci dimostra che i safe place non esistono, ma che possiamo provare a rendere i nostri spazi tali, e non certo gettando la polvere sotto al tappeto. C’è il tentativo di Eric di conciliare la sua fede e il suo essere queer, e la consapevolezza che la sfida non è e non deve essere privata perché si tratta di una contraddizione ipocrita delle comunità spirituali, non dell’individuo che le frequenta da quando era ragazzino. C’è uno stalker insospettabile, e la dinamica è rappresentata piuttosto bene. Viv si era convinta che se avesse studiato e basta, evitando le relazioni con gli uomini, si sarebbe protetta: scopre che non è così. Perché il suo comportamento evitante fa sì che, quando decide di aprirsi, ha meno esperienza delle altre per poter riconoscere persone tossiche, e inoltre ci arriva con la sete d’amore tipica di chi è stata sola troppo a lungo. Per fortuna non è stata alla larga dagli amici; saranno proprio loro a darle una mano rispetto allo stalker.
C’è, infine, il rapporto tra Adam e suo padre, tenerissimo e buffissimo, con questo maschile monolitico che così monolitico non è, e finalmente fa un percorso per imparare a comportarsi in maniera più empatica. Se c’è un lieto fine, è proprio a quella piccola e dolce vicenda personale e familiare che bisogna guardare per trovarlo.
Non spoilereremo il finale effettivo, né come andrà tra Maeve e Otis. Diremo solo che Let it be nella versione di Aretha Franklin è una colonna sonora perfetta per un’adolescenza che finisce. Ma anche per la vita, forse, in genere.
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Laser 07.02.2023, 09:00
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