C’è chi ama davvero il pop, e chi finge. In entrambi i casi, prima o poi si vede. Nel caso di Shonda Rhimes, si vedeva già un quarto di secolo fa, che non fingeva.
Lei a trent’anni – oggi ne ha cinquantacinque, ed è la donna più potente della televisione americana dopo Oprah Winfrey, ma su questo torno tra poco – scrive Crossroads – Le strade della vita, debutto cinematografico di Britney Spears (spernacchiato dai critici, incassa sei volte il suo budget di dieci milioni di dollari) oppure Pretty Princess per la Disney (“Una commediola blandamente rassicurante” secondo il New York Times, incassa 160 milioni e genera un sequel, con un secondo in produzione mentre scrivo). Forse non sono titoli rimasti nella storia, ma le case di produzione se li ricordano, eccome. E anche il pubblico che li ha visti.
Nel 2002, Shonda Rhimes incontra la produttrice Betsy Beers, una donna già notevolmente esperta del mondo dei network e delle logiche di business hollywoodiane. Insieme a Betsy, Shonda decide di fondare la sua casa di produzione, Shondaland («solo un gioco di parole con Disneyland», dice oggi, rifiutando l’idea che si trattasse di un modo per coccolare il suo ego), con la quale avrebbe proposto alla rete ABC la sua prima serie originale, un medical drama con risvolti romantici. Pochi mesi dopo (come raccontato all’Hollywood Reporter) Shonda e Betsy sono chiuse in una stanza con un gruppo di dirigenti del network, tutti maschi.
Uno si rivolge a loro: «Questa Grey’s Anatomy… io non la capisco. Non riesco a entrare in relazione con i personaggi. Voglio dire, c’è questa donna che va in giro per locali la sera prima del suo primo giorno di lavoro, si ubriaca e va a letto con uno sconosciuto. Che razza di donna farebbe una cosa del genere?». Betsy gli risponde: «Io. Ero io. È esattamente quello che ho fatto la sera prima del mio primo giorno di lavoro». Il manager non osa più proferire parola, e Shonda capisce che Betsy è la persona giusta per aiutarla a portare le sue storie al pubblico. Grey’s Anatomy viene approvato dal network e debutta nella midseason del 2005 (per inciso, le serie lanciate a marzo, quindi effettivamente a metà stagione, non sono di solito quelle su cui le reti televisive americane puntano più forte), diventando in breve tempo una delle più viste. Negli anni successivi, Shonda avrebbe lanciato Private Practice, Scandal, Le regole del delitto perfetto: tutte hit, nell’insieme capaci di ridefinire l’intera immagine di un network che era conosciuto soprattutto per i game show, tipo Chi vuol essere milionario. Shonda, in quegli anni, è la ABC.
Intanto, la televisione cambia, tutta quanta. Content is king, ce lo ripetono fino alla nausea. E nonostante gli schermi si moltiplichino (pc, tablet, cellulari, fino a visori fantascientifici e grotteschi), di quel Contenuto-Re la televisione rimane regina. Regina della narrazione, grazie soprattutto a un periodo che ha visto i telefilm proliferare, evolversi, arricchirsi; sgomitare fino al centro dell’immaginario collettivo del mondo occidentale, cioè di quello che gira intorno al sole hollywoodiano, alle produzioni americane. Le serie televisive diventano oggetto di analisi continua, e quello che si nasconde dietro un serial diventa importante quanto quel che si vede davanti. Niente battutacce sui nudi integrali visti nei telefilm Made in HBO, per favore.
Così, mentre l’arrivo dello streaming ridisegna la mappa del potere televisivo, le grandi produzioni diventano sempre più grandi, sempre più hollywoodiane, e allo stesso tempo meno maschili e meno bianche. Già, non l’ho ancora scritto, eppure conta: una delle artefici di questo cambiamento è proprio Shonda Rhimes, una donna nera di Chicago, un po’ sovrappeso, lontana dal lucente standard hollywoodiano. Eppure è lei a imporre, a colpi di blockbuster televisivi da oltre dieci milioni di spettatori a puntata, storie che ruotano attorno a forti donne protagoniste. Spesso donne afroamericane come lei.
Non deve stupire quindi, se Shonda è diventata un personaggio. Ha costruito nel corso degli anni la sua nuova immagine, abbracciando il suo successo a poco a poco e trasformando la sua mente e il suo corpo. Fino a metà degli anni Dieci, infatti, Shonda appare un tipo davvero riservato per gli standard di Hollywood: non ama interviste, apparizioni e discorsi in pubblico. Finché non decide di scrivere un libro sulla sua vita, con un titolo che dice molto: L’anno del sì è effettivamente la storia di come Shonda Rhimes abbia imparato a rispondere positivamente a tutto ciò che la spaventava, ad affrontare la vita con nuove energie, a migliorare se stessa. Sembra un manuale di auto-aiuto, di quelli di moda in America (impressione confermata dal sottotitolo, peraltro malamente tradotto in italiano: Non avere paura, vivi con gioia e diventa la tua persona). In realtà si tratta di un diario scritto con gli stessi toni che colorano i personaggi creati da Shonda. Il suo è un monologo che assomiglia, per il modo di procedere, alla voce fuori campo della dottoressa Meredith Gray, che accompagna ogni puntata di Grey’s Anatomy.
In quelle pagine la Rhimes racconta – incredibile ma vero – di essere una donna insoddisfatta. Nonostante la casa di produzione responsabile di successi televisivi storici, le tre splendide figlie (due adottate, una nata da madre surrogata), i molti soldi e molti onori. Eppure rimane una persona introversa, timida, mai in pace con se stessa. Dunque, decide di cambiare il suo atteggiamento verso il mondo, da negativo a positivo: i “sì” detti si trasformano in una svolta personale. Dimagrire, superare la paura del parlare in pubblico, perfino rompere con il fidanzato: ecco come cambiare la propria vita, in meglio. Forse i consigli di Shonda non sono immediatamente applicabili all’esistenza di persone normali (e lontane migliaia di chilometri dall’America), ma non importa: il libro rafforza la sua immagine, ormai diventata un cliché pop.
Nel 2018 Shonda firma un contratto con Netflix: 150 milioni di dollari per portare nuove produzioni al gigante dello streaming. La metamorfosi è ormai compiuta; da semplice sceneggiatrice di successo, Shonda diventa il sogno americano in carne e ossa, segno dei tempi che cambiano, sia nella società che nel mondo dei media. Il suo successo non è solo personale, è una rivoluzione culturale: tutti i telefilm scritti da Shonda hanno un cast che rappresenta ogni componente, ogni etnia della società statunitense. “Quando ho creato la mia prima serie tv – ha scritto, parlando di Grey’s Anatomy – ho fatto una cosa che consideravo perfettamente normale: essendo il ventunesimo secolo, mi sono adoperata affinché il mondo della fiction rispecchiasse il mondo di oggi.
L’ho riempito di persone di tutti i colori, generi, estrazioni sociali e orientamenti sessuali (...) Tutto questo, mi è stato detto e ridetto, è stato pionieristico e coraggioso. Spero che anche voi abbiate inarcato un sopracciglio, cari lettori. Perché dai, per favore.” Ecco. Eppure, con il senno di poi, lo è stato. Oggi i suoi telefilm sono riconoscibili a un primo sguardo proprio per il cast multietnico, e a ogni nuovo successo (Inventing Anna: mezzo miliardo di ore viste nel primo mese di programmazione; Bridgerton: 350 milioni per la terza stagione) cementa l’idea che popolarità e diversità (perdonate il calco dall’inglese) non siano in conflitto. Questa settimana ha debuttato su Netflix l’ultima produzione Shondaland, The residence, che pare aver convinto anche la critica, in attesa dei dati sul gradimento del pubblico (facile scommettere che sarà piuttosto alto). Intanto Grey’s Anatomy ha continuato a raccogliere numeri pazzeschi, e solo l’ultima stagione, proprio quella del ventennale, sta mostrando segni di cedimento a livello di audience. Se dopo vent’anni qualche fan della prima ora comincia a essere stufo, in compenso la serie è stata scoperta da una nuova generazione di spettatori, che ha ricominciato a vederla da capo, catapultandola in cima alla classifica delle più streammate d’America negli ultimi anni. Quando l’amore per il pop è vero, il pubblico lo riconosce. Shonda è come noi, e allo stesso tempo è quello che vorremmo essere.
Nuovi, vecchi, cari telefilm
Il divano di spade 02.03.2024, 18:00
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