“Al momento ce ne sono pochi in circolazione, di cineasti così genuinamente intellettuali come Stallone”, scriveva ormai più di un decennio or sono l'oggi direttore del Locarno Film Festival Giona Nazzaro, prendendo atto della rivalutazione da parte di critici e cinefili di quello che gli storici Razzie Awards statunitensi avevano premiato come “peggior attore del ventesimo secolo” solo pochi anni prima.
In effetti, se non come attore, oggi Sylvester Stallone è riconosciuto come autore di prima grandezza del cinema americano, evidenza a cui è difficile controbattere, nonostante lui stesso tenti di rendere più imbarazzante l'ultima parte della sua carriera partecipando a fiaschi – che possono risultare simpatici, per carità, ma rimangono indubitabilmente fiaschi – come l'ultimo Samaritan, disponibile da pochi giorni su Amazon Prime Video.
Inutile parlare di quello che sarebbe potuto essere il primo film davvero supereroico con protagonista l'attore che da sempre ha interpretato personaggi in qualche modo superumani (come giustamente hanno notato molti critici), e che invece risulta sbagliato da quasi tutti i punti di vista (a parte la decisione di chiamare il principale antagonista “Nemesis”, miglior nome della storia stallonesca insieme al cattivo “Jean Vilain” interpretato da Jean-Claude Van Damme in I mercenari 2). Samaritan lo dimenticheremo presto, Stallone lo ricorderemo a lungo.
Lo ricorderemo come uno degli autori più importanti del cinema americano della seconda metà del Novecento. E senza ironie. Almeno se essere autore significa essere dotato di tre caratteristiche fondamentali: avere una poetica e uno stile definito; rappresentare lo spirito del tempo; avere un forte impatto sul pubblico. Tre indizi fanno una prova.
Il primo punto è innegabilmente rispettato, visto il modo in cui la poetica e lo stile stalloniano rimangono riconoscibili attraverso le sue opere, non solo da regista. Facilmente potremmo citare ad esempio l'uso consapevole ed estremamente abile degli stereotipi, con personaggi buoni o cattivi, in bianco o nero, fino alla scoperta di qualche inaspettata sfumatura di grigio, quando al buon cuore si accompagna una fondamentale imperfezione, da cui scaturisce la tensione drammatica; eroi che partono da una posizione di svantaggio e si riscattano attraverso la sofferenza e la violenza; maschilisti che spesso non rimangono tutti d'un pezzo, ma esprimono le loro emozioni con grida e pianto – a partire ovviamente da Rocky e Rambo – fino a raggiungere un tono scopertamente melò, parte integrante dello stile-Stallone quanto i bicipiti. E a proposito di stile, se l'estetica dei film di Stallone (qui invece sarebbe opportuno distinguere lo Stallone attore dallo Stallone regista, anche se in diverse occasioni in cui non figura come tale, il suo controllo creativo sul film rimane soverchiante) è forse meno unica rispetto a quello di autori come Wes Anderson o Michael Mann, rimane sempre estremamente riconoscibile, a partire dal montaggio ritmato che dà forma alla storia.
Per quanto riguarda lo Zeitgeist, Stallone è stato sempre capace di anticiparlo o cavalcarlo: se il dramma di Rocky era ancora quello di un eroe metropolitano, sporco e realistico come piaceva agli autori (again) della New Hollywood degli anni Settanta, negli Ottanta Stallone avrebbe abbracciato la nuova onda del cinema d'azione muscolare, contemporanea al decennio abbondante in cui il partito repubblicano dominava la politica statunitense e un ex-attore come Ronald Reagan dimorava alla Casa Bianca per due mandati consecutivi. Fu lo stesso Reagan a dichiarare la sua passione per il personaggio, fino ad arrivare a dire: “Ho visto Rambo, e Rambo è un repubblicano!”. Anni più recenti hanno visto il personaggio più noto della carriera di Stallone diventare, secondo molti, un simbolo della rinnovata xenofobia che caratterizza la comunicazione politica di Donald Trump: una testimonianza della capacità di Stallone di rimanere un'icona americana, anche se magari non nel senso più positivo...
Dal punto di vista prettamente cinematografico, però, appare ancora più importante lo slittamento di tono rappresentato dalla più recente trilogia di Expendables, pienamente immersa nell'ironia metanarrativa che caratterizza molti dei prodotti dell'era di internet: l'importante non è seguire la trama, ma godere dei mille riferimenti a storie passate che il cast porta con sé. E pazienza se età avanzata e film d'azione non sembrano sposarsi particolarmente bene...
Il terzo punto, l'impatto sul pubblico, è dimostrato non tanto dai 4 miliardi di dollari incassati direttamente al botteghino dai film di cui è stato protagonista, ma dal modo in cui la loro eco continua a risuonare a distanza di decenni.
Visto che Stallone è una star di serie A e che tutti i suoi film possono essere facilmente reperiti su diversi canali, sono ormai molti coloro i quali li hanno visti ripetutamente, e non solo quelli più noti. Questo tipo di visione ripetuta in modalità home video (prima erano VHS e DVD, oggi lo streaming) offre allo spettatore un rassicurante senso di controllo, frutto della padronanza dell'oggetto narrativo: una sottile ebbrezza offerta anche dai sequel, che permettono al pubblico di continuare a interagire con i film che ha amato. Il fatto che circa un quarto delle pellicole di Stallone appartengano a serie, e che altri film della sua carriera siano accomunati da personaggi simili, nonché a volte dagli stessi attori, è parte di questo processo di ripetizione/rassicurazione. Infantile, se volete, ma efficace.
E poi c'è Rocky. Rocky che perfino più di Rambo è diventato un fenomeno culturale, a partire dal pellegrinaggio non-stop verso Philadelphia e la scalinata del Museum of Art, che lo stesso Stallone nel corso di diverse interviste ha spiegato in modo tanto semplice quanto convincente: “Ci sono pochissime situazioni iconiche davvero accessibili... Non puoi prendere in prestito il mantello di Superman. Non puoi usare la spada laser dei Jedi. Ma i gradini sono lì. I gradini sono accessibili. E stando lassù, ti senti parte di quello che è l'intero mito di Rocky”.

Meglio Rambo o Indiana Jones?
RSI Archivi 12.02.1986, 13:59
Dunque, è facile capire perché Sylvester Stallone a 76 anni sia un autore riconosciuto dall'industria cinematografica, dal pubblico e perfino dagli studiosi, come dimostra tra le altre cose la raccolta di saggi accademici The Stallone Reader, pubblicato dall'americana Columbia University Press nel 2014. Scrive il curatore Chris Holmlund: “Tra le star del cinema d'azione più importanti dell'ultimo mezzo secolo, solo Clint Eastwood ha avuto un impatto creativo maggiore. Harrison Ford non è mai stato sceneggiatore, regista o produttore; Schwarzenegger a sua volta ha raramente diretto o prodotto, e mai scritto per lo schermo [...] Quindi, si potrebbe riassumere l'impatto di Stallone sul cinema d'azione americano così: Ci sono Chaplin e Keaton. C'è Clint. E c'è Sly.”