Terrifier 3 in breve: un clown psicopatico ammazza persone dall’inizio alla fine. Senza trama, senza un character design degno di questo nome, senza tematizzare sensatamente niente, ma con molte budella che fuoriescono per il gusto di farle fuoriuscire.
Eppure, gli amanti del genere sono molti. Moltissimi. Il film è costato appena 2 milioni di dollari, e al momento ne ha incassati più di 67. Quando è uscito negli Stati Uniti, l’11 ottobre di quest’anno, è diventato il più visto di quel fine settimana. Quindi sì, questa roba piace. Ha inoltre una formula affine al mercato, che permette grandi guadagni con investimenti relativamente minimali.
Il momento è particolare per i film horror, ne vengono prodotti a bizzeffe. Hollywood Reporter parla, per essere precisi, addirittura di “horror fatigue”: in sostanza, ce ne sono troppi in circolazione. Al punto da fagocitare nel genere anche film che decidono di trattare temi importanti, si pensi al recente The Substance, un body horror classificato come “elevated horror” proprio perché tutto, dalla fotografia alla recitazione passando per la sceneggiatura e le citazioni (la stessa grammatica filmica) ha un livello più alto di quello di un blockbuster. Com’è evidente, non è il caso di Terrifier 3.
Un film che ha fatto arrabbiare moltissimo larga parte della critica cinematografica, e a ragione.
Come dare torto al parere tranchant espresso da Lorenza Negri su Wired, secondo cui «Art il Clown tortura e uccide solo per sadismo, o meglio, per solleticare gli spettatori (…) e per nascondere la mancanza di talento del suo autore»? Negri, nel suo articolo, arriva a sostenere in un crescendo di insofferenza che è lo stesso genere ad aver scocciato, il “torture porn”, soprattutto quando è così gratuito, mal pensato, mal rappresentato. «Dovrebbe estinguersi», ci dice.
Non ha torto.
In Terrifier 3 con la scusa del genere si lasciano passare messaggi irricevibili; c’è una donna sfigurata, apparentemente dall’acido, che si accompagna al Clown e si taglia le vene. Poi, essendo in sostanza immortale, non muore. Ma magari un briciolo di delicatezza in più quando si sceglie di usare una donna sfigurata e le si fa tentare il suicidio non sarebbe male. Esistono, le donne sfigurate dall’acido. E capita che al suicidio pensino per davvero. Un horror di bassissimo livello non è una scusa per deresponsabilizzarsi come creatori di immaginario.
Si proverà ora a rispondere alle seguenti domande. La prima: c’è qualcosa che si salva? La seconda: c’è un motivo per cui il pubblico è attratto da storie mal scritte e mal confezionate come questa?
Cosa si salva, dunque. Forse la rappresentazione del PTSD, il disturbo post-traumatico da stress. I due survivor del Clown, fratello e sorella, hanno problemi di sonno, flashback, paranoie e cicatrici. Il discorso sul trauma non è del tutto da buttare, anzi: succede più di una cosa interessante a riguardo, nel film. Per esempio si scopre che non è detto che se vedi il Clown ovunque perché hai avuto a che fare con lui in passato non possa uscire fuori per davvero; anche se non ti fidi delle tue percezioni, talvolta ha senso ascoltare la pancia, l’istinto. Averlo offuscato o non essere certi se fidarsi o meno di quest’ultimo è di sicuro un tratto delle persone sopravvissute a certi tipi di traumi. Talvolta, però, la paura ha ragione. Fidati di te.
Si salva anche il breve dialogo sulle cicatrici della protagonista destinata a sconfiggere (o quasi sconfiggere) Art il Clown:
«Come ti sei fatta quelle cicatrici?»
«Ho combattuto»
«E hai vinto?»
«Sì, ho vinto».
David Howard Thornton,il Clown di "Terrifier 3"
Alla fine è tutto ciò che c’è da dire sulle cicatrici. È molto chiaro che non sono medaglie ma segnacci; qui non c’è retorica e nella sua semplicità quella scena si salva.
Come si salva il personaggio - forse troppo sessualizzato - della ragazza che tiene un podcast di true crime, e la riflessione su chi idolatra i famosi. Famosi di qualunque tipo. In lei l’oscillazione tra venerare e disprezzare è evidente e palese, l’assenza di empatia pure, l’attitudine allo sciacallaggio. Il suo approccio è agghiacciante ma profondamente realistico.
Si salva infine, ed è in linea con un certo filone di horror, il rovesciamento dei simboli cristiani; con una Gesù femmina e una vera e propria corona di spine, una Gesù che però uccide, con stigmate che guariscono. Banale, ma può divertire.
Provare a rispondere all’ultima domanda (e cioè cosa cerchi il grande pubblico in film come Terrifier 3) è molto più complesso. L’ipotesi è che lo guardino due tipi di spettatori. Il primo è l’appassionato del genere, che magari apprezza anche gli elementi più trash. Il secondo è: chi ha tratti di sadismo. Sorprende scoprire quante persone ne abbiano. In definitiva, forse, più che auspicare l’estinzione del torture porn avrebbe senso auspicare l’estinzione di chi gode nel vedere torturata la gente, ma soprattutto di chi, nel mondo reale, la tortura.
Novità sul grande schermo e i film in arrivo
Tra le righe 07.11.2024, 14:00