Parte sicuro, ha molto da dire e sa come dirlo, Martin McDonagh e non cede alle leggi del botteghino, fin dal titolo del suo meraviglioso film. Non si è chiesto: a chi diavolo potrà mai interessare un film che sembra trattare di cartellonistica? E pure ambientato a Ebbing, un paese che evoca "declino", "riflusso", "venir meno".
Eppure questo insolito e misterioso titolo non viaggia solo. Ammantato da meritato successo, con inesauribili lodi ad un cast d’eccezione, il film si è segnalato ai Festival e ai Premi ai quali ha preso parte. Un film ricco e che cesella abilmente (con una sceneggiatura impeccabile, che ne fa già un classico del cinema) dramma e commedia, serio e faceto, odio e amore.
Regista di teatro prima che di cinema, drammaturgo londinese (con origini irlandesi), McDonagh firma, con Three Billboards outside Ebbing, Missouri la sua terza sceneggiatura e regia cinematografica, dopo il precedente 7 psicopatici e il suo primo lungometraggio, In Bruges. Pellicole che l'avevano segnalato come un originale e promettente autore di teatro prestato al cinema. Di ritorno da Venezia con un premio per la sceneggiatura, da Toronto con il Premio del Pubblico e con quattro premi dai Golden Globe, si può ora davvero dire, di questo suo terzo lavoro, che si tratta del film del momento, apprezzato dal pubblico come dalla critica.
Mildred Hayes (interpretata da una stupefacente Frances McDormand) è una madre che ha perso la figlia, orrendamente uccisa una notte, non lontano da casa. Nell’attesa che le indagini di polizia diano un nome al responsabile, Mildred matura la certezza che non succederà nulla. Una consapevolezza che la porta a toccare il fondo della disperazione. Non ha più nulla da perdere, non ha più fiducia in niente e in nessuno, solo nella sua ostinata determinazione a chiedere giustizia con ogni mezzo ad un corpo di polizia che sempre più si palesa come raffazzonato e inconcludente (immensa l’interpretazione di Sam Rockwell e Woody Harrelson nei panni del vice e del capo della polizia che dismettono i panni degli psicopatici del precedente film di McDonagh).
Mildred affitta tre grandi cartelloni abbandonati a bordo della strada che porta in paese e ci fa scrivere tre frasi, tre accuse e invettive all’indirizzo della polizia, rea - in sei lunghi mesi – di non aver fatto nulla per trovare il responsabile dell’omicidio. Insomma è la storia di una donna che non può più aspettare, anela verità e giustizia e le ricerca con tutta se stessa e con ogni mezzo, lecito e illecito.
Non c’è critico che nelle recensioni alla pellicola non abbia parlato della superlativa interpretazione di Frances McDormand che dà alla storia uno spessore e una forza speciali, del tutto peculiari, del tutto americane (le movenze di John Wayne nei film western sono state per lei fonte di ispirazione). Solo una riconferma delle grandi capacità attoriali dell'interprete di Fargo, il film culto diretto dal marito Joel Coen con il fratello Ethan, che le è valso l’Oscar come miglior attrice protagonista nel 1997.
Accenni, più o meno palesi, a vicende recenti e ai più salienti episodi della storia degli Stati Uniti ce ne sono proprio tanti, diretti e indiretti. Il razzismo neanche troppo nascosto del corpo di polizia, come in un'intera generazione apatica e indolente; i cartelloni dismessi che la protagonista prende in affitto, vessilli del fatale decadimento di un sogno americano ormai in frantumi; le inquadrature sulle strade della cittadina e le scene di sparatorie e di facili defenestramenti che sembrano uscite da un western di John Ford; il mito della frontiera rovesciato. La natura mistica e selvaggia che chiede spazio ad una civiltà consunta che nega se stessa.
Difficile poi non riconoscere a Martin McDonagh la volontà di vestire Mildred con i panni della Rosie The Riveter (Rosie la Rivettatrice), una vera e propria icona della cultura degli Stati Uniti, divenuta poi in tempi recenti, per le femministe, il simbolo dell’indipendenza economica faticosamente conquistata dalle donne.
Mildred che per tutto il film indossa una tuta blu da lavoro, spesso anche un foulard attorno alla testa a pois bianchi, non può non richiamarci alla memoria la mitica figura di Rosie the Riveter. Il famoso manifesto di propaganda uscì nel 1943 quale simbolo del duro lavoro al quale erano state chiamate le donne nelle fabbriche di armamenti, svuotate dagli uomini impegnati a far la guerra, per sostenere l’impegno dell’esercito statunitense nella seconda guerra mondiale. Alla donna del manifesto venne dato il nome di “Rosie the Riveter” dal titolo di una canzone del 1942 di Redd Evans e John Jacob Loeb.
Anche Mildred, come Rosie, sta facendo la storia, lavorando per la vittoria nella sua battaglia per la giustizia, nella sua lotta – pure un po’ bombarola – perché nella storia di ogni individuo, come di un intero paese, prevalgano il rispetto e l’amore. Una vittoria evocata e invocata nel film, come una nuova frontiera. L’utopia di un ovest tutto da conquistare.
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