Cinema

Werner Herzog

Con Hiroo Onoda negli abissi del tempo

  • 16.09.2023, 09:02
  • 05.02.2024, 15:07
Werner Herzog
Di: Mattia Mantovani 

Per un rigoroso illuminista come Immanuel Kant la questione -si fa per dire- era estremamente semplice e lineare: il tempo e lo spazio sono le forme della percezione, quindi due realtà oggettive, perfettamente quantificabili e misurabili. Come dice un celebre asserto della “Critica della ragion pura”: «Il tempo è una rappresentazione necessaria che sta a fondamento di tutte le intuizioni».

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Werner Herzog. Da solo e contro tutti

Alphaville 08.09.2023, 18:20

  • Keystone

Il che, beninteso, è verissimo, però nei duecento anni che ci separano da Kant abbiamo scoperto che il tempo è anche qualcosa di molto diverso, al punto che uno scettico realista come Ennio Flaiano, alcuni decenni orsono, ha potuto giustamente affermare che un secolo e oltre di positivismo ci ha portato a nutrire una legittima -e attualissima, si può tranquillamente aggiungere- diffidenza nei confronti delle verità rivelate della scienza. La questione, quindi, è tutt’altro che risolta.

Flaiano, non a caso, autore tra l’altro di una meravigliosa sceneggiatura per un film sulla “Recherche” poi mai realizzato, era un proustiano “doc”. Perché è proprio con Proust e le sue “intermittenze del cuore” che abbiamo scoperto l’altra verità: il tempo è una forma della percezione, certo, ma anche la percezione è una forma del tempo, ed è in virtù della percezione che la memoria, i ricordi, il cosiddetto “vissuto”, l’infinita trama dei momenti di una vita si uniscono a formare la vita stessa e ne dicono la sostanza, ammesso che una sostanza esista. Si capisce allora perché Robert Walser, in un racconto autobiografico intitolato “Storia di Helbling”, abbia scritto che il tempo è davvero una cosa stranissima: «Passa in fretta, eppure in questo suo correre pare come improvvisamente incurvarsi, spezzarsi, e poi è come se non esistesse più».
Da questa poeticissima ma anche prosaica e ben poco “kantiana” percezione, che col passare degli anni e l’accumulo meramente additivo delle esperienze può perfino trasformarsi in un dozzinale dato di fatto, è possibile trarre conseguenze di varia natura. Si può provare, ad esempio, il vago sospetto di non essere mai vissuti (il tema è stato magnificamente sviluppato da Max Frisch in un testo scenico intitolato “Trittico”), o magari ci si può consolare con le parole dello scrittore austriaco Ernst Weiss, che ha paragonato l’esistenza dell’essere umano a una caduta ininterrotta, aggiungendo però che c’è la possibilità di dare una forma -una “curvatura”- alla caduta stessa. La metafora è contenuta in un racconto del 1928 intitolato “L’aristocratico”: il protagonista è l’ultimo discendente di una nobile famiglia, che viene educato in un collegio molto severo e ha la costante sensazione di vivere come un tuffatore nel preciso momento in cui si getta dal trampolino e rimane sospeso nel vuoto.
L’io narrante, pressappoco a metà del racconto, riferisce la sensazione in questi termini: «E’ importante, nei pochi secondi della caduta, mantenere l’equilibrio. Non bisogna perdere l’autocontrollo mentre si cade. L’altezza conta poco. Non molto diverso dev’essere il precipitarsi della Morte nell’universo vuoto, senza fondo, che si apre davanti a noi, oppure innalzarsi in essa, che poi è la stessa cosa. E’ terribile accingersi al salto tremanti di paura, le gambe ti vengono meno e precipiti come un uccellino bagnato dalla pioggia. Il tuffatore pavido arriva giù tra i dolori più atroci e riceve dalla superficie dell’acqua una botta tremenda. Questo non deve succedere. Là dove l’animo non riesce, può arrivare la volontà». La vita viene insomma paragonata a una continua caduta che non è assolutamente possibile arrestare, ma forse è possibile almeno controllare e modellare, trasformando la caduta stessa in una traiettoria parzialmente armoniosa, dotata di un senso e appunto una “curvatura”.

Oppure si può intraprendere una discesa in quello che Joseph Conrad aveva definito “The End of the Tether”, il “limite estremo”, l’abisso del non-spazio e soprattutto del non-tempo, come ha fatto il grande regista tedesco Werner Herzog nel suo bellissimo libro intitolato “Il crepuscolo del mondo” (“Das Dämmern der Welt”), pubblicato nel 2021 in lingua originale e pochi mesi dopo in versione italiana, che si affianca all’ormai lontano “Sentieri nel ghiaccio” e alla “Conquista dell’inutile”, il diario di lavorazione del film “Fitzcarraldo”, confermando le sue notevoli doti come narratore puro. Perché è lecito parlare di abisso del non-spazio e del non-tempo? Perché Herzog racconta nientemeno che la storia di Hiroo Onoda, il soldato giapponese (nato nel 1922 e morto nel 2014) che per ventinove anni (dal 1945 al 1974), dopo la fine della Seconda guerra mondiale, difese una piccola isola delle Filippine, nella convinzione che il conflitto con gli americani fosse ancora in corso. E poi perché Hiroo Onoda ha costituito l’incarnazione estrema di uno stato della mente: una specie di sfasatura e incrinatura, uno scarto irrazionale che induce una costante sensazione di vuoto e vertigine che a tutti è capitato di provare in taluni frangenti della vita.

L’antefatto, come racconta lo stesso Herzog, è costituito da un soggiorno in Giappone nel 1997 in occasione di una messinscena teatrale: «L’imperatore aveva fatto sapere che sarebbe stato lieto di ricevermi in udienza privata. Per l’amore del cielo, risposi, non ho la più pallida idea di che cosa potrei parlare con l’imperatore, sarebbe solo un vuoto scambio di formalità. Fu una gaffe così terribilmente stupida, che al solo pensiero, ancora oggi, vorrei sprofondare sottoterra. In quel momento, pensai che tutto il Giappone avesse cessato di respirare. Poi, da quel silenzio, si alzò una voce e chiese chi, se non l’imperatore, avrei desiderato incontrare in Giappone. Senza riflettere, risposi: Onoda. Onoda? Onoda? Sì, dissi, Hiroo Onoda. Una settimana dopo lo incontrai».

Hiroo Onoda

Ma Herzog non si è limitato a incontrare Onoda. Ne ha anche ricostruito (rivissuto, si vorrebbe dire) la storia, reinventando le sensazioni e percezioni dei quasi trent’anni trascorsi nella giungla, in una situazione di totale sospensione spazio-temporale e in un costante crepuscolo del mondo, come dice il titolo del libro, molto evocativo e soprattutto molto vero. La vicenda di Onoda raccontata e ricreata da Herzog dimostra infatti che il tempo è sicuramente forma della percezione, ma anche e soprattutto un’intermittenza del cuore, nella misura in cui la percezione deforma il tempo e lo rimodella, fino a farlo scomparire. E’ precisamente quanto successo a Onoda, che Herzog immagina in questo modo nel febbraio 1945 nella giungla di Lubang: «Il tempo, la giungla. La foresta vergine non conosce il tempo, come se entrambi, simili a fratelli divenuti estranei l’un altro, avessero poco in comune, come se la loro comunicazione fosse ridotta, al massimo, a una reciproca forma di disprezzo».

Un po’ come in “Cuore di tenebra” di Conrad e nel “Grande Sertão” di Guimaraes Rosa, la giungla, in quanto unico orizzonte esperito ed esperibile, diventa il mondo, il suo spazio, il suo tempo, il suo crepuscolo, in una presenza e assenza di tutto: «Un uccello notturno piange e un anno intero è passato. Una goccia d’acqua su una foglia lucida di un banano cattura per un istante un raggio di sole, e un altro anno è passato. Il giorno non vuole mai sorgere, mai. Il tempo, al di fuori della nostra vita, è simile agli assalti improvvisi, incapaci di scuotere l’universo dalla sua indifferenza. La guerra di Onoda è irrilevante per l’universo, per il destino dei popoli, per il corso della guerra. La guerra di Onoda è l’unione di un nulla immaginario e di un sogno». Perché “fuori” non ci sono né il tempo, né lo spazio. C’è il niente.

Onoda viene infine trovato il 9 marzo 1974, alle otto del mattino. Il vecchio comandante Taniguchi, recatosi espressamente sul posto, gli comunica che la guerra è finita, Onoda torna alla vita civile (ma il suo nome, per uno strano ma anche normalissimo paradosso, rimane registrato nel santuario di Yasukuni, dedicato ai caduti), emigra nel Mato Grosso, in Brasile, infine torna in Giappone e muore all’età di 91 anni. O forse 62, se si vogliono sottrarre gli anni trascorsi nella giungla. Ma la questione è assolutamente irrilevante, perché nel suo caso l’anagrafe non è altro che una finzione tra altre -tante, troppe- finzioni del “positif du monde”.

Refusing to surrender, Japan's last WWII holdout, Hiroo Onoda, has died aged 91

L’autentica discesa nell’abisso del tempo e della condizione umana si compie soprattutto nelle ultime pagine, quando Herzog pone una serie di terribili domande: «Dove inizia ciò che è tangibile, reale, e dove comincia il ricordo che ne conserviamo? Crediamo di vivere nel presente, ma il presente non può esistere. Cammino, vivo, sono in guerra? Il futuro è come una nebbia in continuo mutamento, posata su un paesaggio sconosciuto. Era stato un sonnambulo, per tutti quegli anni, o aveva sognato, allora, l’oggi, l’adesso? Spesso, a Lubang, si era posto questa domanda. Non c’era nessuna prova che quando era sveglio fosse sveglio, e nessuna prova che quando sognava stesse sognando. Il crepuscolo del mondo».

Come rispondere? Cosa rispondere? Forse l’unica risposta plausibile è che Lubang è dappertutto, Lubang è il mondo, e quindi capita raramente, come è capitato a Onoda in quei lunghissimi (o brevissimi?) ventinove anni, di sapere «dove ci si trova», di sapere «di esistere». Forse, suggerisce Herzog (ma è una semplice supposizione), lo si può sapere soltanto quando «il cuore batte col cuore degli animali, il respiro respira con loro», quando «la notte è finita e i banchi di pesci nuotano nel buio»: nel crepuscolo del mondo, appunto, dove vita e morte, spazio circostante e tempo dell’esistenza, realtà e irrealtà si incontrano per poi perdersi in quell’infinito silenzio degli spazi che da Pascal in poi, malgrado tutte le mitologie e le tante glorie del “progresso”, non smette di atterrirci.

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