Dopo quasi ottant'anni di onorata carriera, è ancora un successo. Nonostante tutto, nonostante i cinema chiusi e un'uscita ibrida (sala e streaming insieme) negli Stati Uniti, Wonder Woman 1984 ha incassato finora 150 milioni di dollari: oro, in epoca post-covid. All'epoca dell'uscita del primo film diretto da Patty Jenkins e interpretato da Gal Gadot, ormai quattro anni fa, l'onda positiva aveva addirittura travolto l'intera stagione cinematografica, non solo per una questione di incassi: Wonder Woman era stato considerato una parabola femminista arrivata al momento giusto, con una protagonista costruita in modo ineccepibile per essere una vera eroina moderna. Tutto vero, anche se con il senno di poi dobbiamo ammettere che in quel caso, la potenza dell'icona-Wonder Woman aveva nascosto i difetti del film. Ma questo è un particolare che non mette certo in ombra il perdurante successo del personaggio, apparentemente tra i più lineari del vario mondo dei supereroi (“è l'unica donna”), in realtà estremamente complesso e intrigante. A partire dalle sue origini.
Se molti dei supereroi che conosciamo sono frutto della fantasia di giovani figli di immigrati, provenienti dalla working class americana dei primi del Novecento (come Jerry Siegel, creatore di Superman, o Stan Lee), Wonder Woman è nata invece otto decenni fa dalla mente di un uomo aristocratico, colto, un professore di psicologia, autore di saggi, inventore. E un grande sostenitore dell'amore libero, completamente fuori dagli schemi morali degli anni Quaranta. Ma andiamo con ordine.
La storia delle origini di Wonder Woman inizia con William Moulton Marston, ricco rampollo di una nobile famiglia di Boston, cresciuto in un castello e poi laureato ad Harvard. Marston finiti gli studi sposa la sua fidanzata d'infanzia, ma vuole in casa anche l'altra donna di cui è innamorato, generando figli con entrambe: una situazione che oggi sarebbe facile definire di poliamore, anche in considerazione del fatto che i biografi di Marston hanno trovato traccia di molte altre relazioni “ufficiali”, pur se meno durature. L'altra ossessione di Marston è l'idea di verità: sua infatti è l'invenzione del primo poligrafo – la macchina della verità la cui efficienza è ancora oggetto di dibattito – e di un meccanismo gemello utile a “rivelare l'amore”. Ancora, lo psicologo è un fervente sostenitore dell'emancipazione femminile: come racconta la storica americana Jill Lepore nel suo meraviglioso The Secret History of Wonder Woman, Marston rimane affascinato dall'incontro con la militante suffragista britannica Emmeline Pankhurst, avvenuto a Harvard nel 1911, e diviene subito un teorico del potere delle donne.
Se ama il genere femminile, Marston invece non apprezza i fumetti: scrive diversi articoli-pamphlet contro un medium che considera violento e diseducativo, che riduce le donne a oggetto e si crogiola in un agghiacciante maschilismo. Proprio questi articoli lo portano a essere contattato dall'editore di quella che sarebbe diventata la DC Comics, e convinto a entrare a far parte di un gruppo di consulenti che aveva il compito di supervisionare i fumetti, rendendoli più “adatti” ai giovani lettori. Da lì alla creazione di un nuovo personaggio, il passo è breve.
Marston vuole che il suo supereroe sia una supereroina, ovviamente: capace di opporsi decisamente alla brutalità dei “colleghi” maschi, e di riflettere le idee del suo creatore riguardo ai rapporti tra i sessi nella società. Così, nel 1942, Wonder Woman arriva sulle pagine di All Star Comics, che già pubblicava le avventure di eroi amatissimi come Flash e Hawkman. Le prime strisce sono un mix che agli occhi del lettore moderno sfiora il limite dell'assurdo: una versione molto pop della mitologia greca, che prevede amazzoni pin-up, vestite con costumi che non avrebbero sfigurato in un musical di Broadway, abbastanza incoerentemente mescolata con particolari fantascientifici (Diana pilota un aereo invisibile, tanto per cominciare). Strano a dirsi, è subito un successo.
Secondo Marston, Wonder Woman avrebbe dovuto rendere chiaro al lettore che amore e compassione sono armi potenti quanto la forza e il coraggio. Ma rimaneva un problema: il pubblico dei lettori di fumetti era per la grande maggioranza composto di maschi. Quei ragazzini avrebbero apprezzato un personaggio del genere? Come avrebbero potuto identificarsi, si chiedeva l'editore? Marston non era particolarmente preoccupato: “Date a un uomo una donna forte a cui sottomettersi, e lui sarà felice di diventare suo schiavo” è la sua dichiarazione riportata dalle cronache dell'epoca (e da un altro godibilissimo saggio, Wonder Woman: Bondage and Feminism in the Marston/Peter Comics 1941-1948, del giornalista Noah Berlatsky). In effetti, non c'è bisogno di essere semiologi per notare come il tema della sottomissione fosse ben presente nei primi numeri del fumetto di Wonder Woman: la protagonista appariva in copertina legata, oppure intenta a legare uomini e donne – la sua arma principale è del resto un lazo – con corde, catene e bavagli. Anche i villain avevano spesso caratterizzazioni che rimandavano al mondo del feticismo.
L'origine di queste ossessioni estetiche appare chiaramente legata alle abitudini personali di Marston, ma il fatto più interessante è senza dubbio il risultato: Wonder Woman negli anni Quaranta era un fumetto ben più profondo delle apparenze. Tra le righe, quelle storie parlavano della violenza contro le donne, dei vari gradi di abuso che il potere maschile imponeva alla metà femminile della società. A volte capitava che Diana sostenesse, neppure troppo velatamente, che l'amore romantico altro non è se non l'ennesima truffa messa in atto dagli uomini per sottomettere le donne.
Riassumendo: fantascienza, critica sociale, mitologia greca, estetica camp e sadomaso. Grande confusione sotto il cielo. Eppure il risultato era dirompente, capace di colpire in modo indelebile l'immaginario di una generazione. La Wonder Woman originale scritta da Marston durò solo pochi anni, ma ancora oggi è al centro di recuperi e analisi. Senza grandi legami con il personaggio che conosciamo nel 2021, assai meno folle e contraddittorio, rimane tuttavia l'ennesima prova di come icone pop possano nascere dai contesti più inaspettati.