Non vorrei essere frainteso: per fortuna che Wonka esiste.
Per fortuna c’è ancora spazio per un vero kolossal holywoodiano, in una stagione cinematografica in cui gli esempi del genere sono usciti dal botteghino con le ossa rotte (con le notevoli eccezioni di Oppenheimer e Barbie, ovviamente). Il sistema del cinema americano ha bisogno di film come Wonka, e di stelle come Timothée Chalamet. Eppure è inevitabile pensare a questa origin story del protagonista di La fabbrica di cioccolato come a un’occasione persa – pur se splendidamente confezionata. Ma andiamo con ordine.
Wonka è un prequel, se così si può dire: racconta come il giovane squattrinato (ma straordinario) Willy Wonka sia diventato il più grande magnate del cioccolato al mondo.
Un’idea che risponde a due esigenze pratiche: prima, la necessità di costruire un nuovo franchise hollywoodiano (WonkaVerse?), che – si sa – viene meglio con protagonisti giovani; seconda, quella di rendere possibile l’interpretazione della più nota giovane (appunto) star di Hollywood nei panni del protagonista. Ma anche un’idea che, come ha scritto Peter Bradshaw sul Guardian, sulla carta è una delle peggiori mai sentite.
Del processo di sintesi e produzione è stato però incaricato un fuoriclasse: Paul King, regista uscito dal brodo di coltura della comicità televisiva inglese e giunto a un meritatissimo successo con i due episodi di Paddington. Paddington 2, detto per inciso, è il film con le recensioni più positive della storia del cinema secondo il noto aggregatore Rotten Tomatoes, dopo aver scalzato dal primo posto Quarto Potere. Il che dimostra che gli aggregatori non sono proprio uno strumento perfetto sotto ogni punto di vista, certo, ma anche che King è effettivamente un regista di talento, capace di costruire mondi credibili intorno ai suoi personaggi.
Che poi è esattamente quello che ha fatto anche con Wonka, una meraviglia estetica che fonde computer grafica e tanti effetti speciali “veri”: King ha dichiarato più volte di non aver contato granché sugli schermi verdi, ma di avere in compenso ricostruito un’intera cittadina sul set. Città che a un primo sguardo appare come un’ambientazione dickensiana in versione fantastica, zuccherosa e kitsch (troppo curata e precisa per diventare camp). Costumi, luci e colori sono calibrati al millimetro: difficile trovare sbavature in questo trionfo estetico che prende la forma di un musical classico, nel quale non c’è bisogno di alcuna giustificazione per cominciare a cantare. King lo dichiara fin dalla prima sequenza, in cui Chalamet scimmiotta platealmente il Gene Kelly di Singin’ In The Rain. E sono molti altri gli omaggi a un secolo di storia del cinema, alcuni davvero inaspettati, in ogni caso sempre riusciti. Quindi, riassumendo: uno spettacolo curatissimo, una dichiarazione d’amore nei confronti del cinema, un vero kolossal hollywoodiano.
Wonka: il cast perfetto
Aggiungo il cast splendidamente assortito: Olivia Colman è infallibile come sempre, Hugh Grant ormai all’ennesima dimostrazione che la seconda parte della sua carriera è quella veramente interessante. E a proposito, mi permetto un consiglio personale agli esperti di marketing della Warner Bros.: non sarebbe stato molto più remunerativo tenere segreta la partecipazione di uno dei volti più noti del cinema inglese degli ultimi trent’anni, nei panni d(egl)i Oompa Loompa? Certo, non avreste potuto inserirlo in ogni trailer e ogni materiale promozionale del film che abbiamo visto nell’ultimo anno. Ma posso scommettere che la sua apparizione sarebbe diventata virale prima della fine della prima proiezione del film. Dal punto di vista della comunicazione, spesso una sorpresa inaspettata funziona meglio di roboanti annunci fatti con mesi di anticipo: lo hanno dimostrato in questi anni le star della musica americana, da Beyoncé a Travis Scott a Kanye West, e Hollywood dovrebbe prendere appunti. Detto questo, Grant è una delle molte delizie in bella vista nella scatola di cioccolatini che è il cast di Wonka.
Manca qualcosa? Beh, non certo i messaggi positivi/progressisti, presentati con grazia all’interno della cornice di fiaba. Il film può essere infatti catalogato all’interno di quel filone business drama diventato piuttosto popolare in America in anni recenti (Richard Brody, altro decano della critica all’altro capo dell’Oceano, ha ricordato sul New Yorker i molti esempi, da Air su Nike e Jordan a Dumb Money sul caso Gamestop, fino all’ultimo Ferrari di Michael Mann). E tuttavia i capitalisti di Wonka sono i cattivi, cattivissimi della favola. La competizione tra i produttori di cioccolato assomiglia a quella tra i cartelli della droga latinoamericani – basta sostituire il cioccolato con altre sostanze psicotrope. Soprattutto però, il film dice chiaramente che, se sei un capitalista, la tua anima è irrimediabilmente compromessa, e prima o poi il popolo sfruttato farà una rivoluzione capace di rovesciare il tuo regime corrotto. O qualcosa del genere.
Eppure, proprio quando ripensi al messaggio politico del film, appare chiara la sua più inaspettata debolezza: il protagonista. Non che Timothée Chalamet abbia perso il suo fascino, per carità. E anche se la voce e la presenza musicale non sono esattamente quelle del citato Gene Kelly, il fascino basta: in fondo, siamo al cinema.
Dentro Wonka, quello che manca non è Chalamet: è Wonka.
Perché quello di Timothée Chalamet non è il vero Wonka
Il Willy Wonka di Paul King ha infatti lo stesso cappello e la stessa passione per cappelli e completi appariscenti dell’originale letterario di Dahl (o forse sarebbe meglio dire del disegnatore Joseph Schindelman, autore delle illustrazioni originali della prima edizione statunitense di La fabbrica di cioccolato), ma gli manca il tratto che distingue i personaggi dell’autore gallese da tutti gli altri: la pericolosità. Il Wonka del libro è inquietante, ha un rapporto ambivalente con i suoi clienti-bambini, e le sue invenzioni possono avere effetti nefasti. Gene Wilder prima e Johnny Depp poi hanno raccontato perfettamente il lato psicotico di Willy Wonka al cinema. Il Willy Wonka di Timothée Chalamet è invece irrimediabilmente buono. E perfino ingenuo: possibile che un ragazzo di vent’anni o poco più lo sia ancora, dopo aver passato “sette anni in giro per il mondo”, da solo, come dichiarato nell’incipit del film?
Chalamet-Wonka conta solo sul suo talento e sulla sua motivazione, e se di quest’ultima ci viene chiarita l’origine, del primo si racconta poco o niente. Non è stato morso da un ragno radioattivo amante del cioccolato. Non ha studiato ingegneria delle macchine fantastiche presso i maestri elfi sulle coste di Valinor. Insomma, in questa origin story mancano le origini. E a questo Wonka manca la cattiveria. Almeno per ora.
Forse dobbiamo aspettare il prequel, e il sequel, e tutti gli altri che arriveranno in mezzo.