Sullo scaffale campeggia quel volume di Longanesi che ho sempre consultato quando desideravo riconciliarmi con il mio ateismo: Senza Dio. Una copertina azzurra (guarda caso come il cielo) e strisce azzurre (di quel cielo) sbavano sulla parola DIO come a tentare invano di cancellarla. Poi quel SENZA che è un manifesto programmatico, una dichiarazione di poetica ed esistenziale: non CONTRO Dio ma SENZA Dio. Una differenza radicale. La differenza fra un devoto dell’ateismo e un ateo privo di devozione, tra un ateo-devoto e un ateo-e-basta.
Tutto in effetti orbita nell’opera di Giorello intorno all’estraneità o all’indifferenza nei confronti di Dio. Un Dio che può essere psicologizzato o storicizzato, ma che alla fin dei conti e degli scandagli – almeno nel pensiero di Giorello – resta una metafora, la più imponente, del Potere e della Verità.
Rinnegare le autorità – rifiutarsi alla «reverenza» per non dire alla «sottomissione» – e affidarsi interamente a quel processo in perpetuo divenire che è il racconto scientifico, questo è il contraltare (in senso proprio, quasi fisico) su cui è costruita l’opera di Giorello.
Scardinare tutto ciò che non rende l’uomo libero in se stesso e per se stesso, a partire dal dogmatismo religioso per finire al dogmatismo ateistico. Essere così ateo da rigettare persino l’ipotesi di un ateismo metodologico «alleato di quei mistici che hanno ridotto il divino a puro “nulla”».
Di questo anti-teologo per eccellenza – sempre pronto a dialogare coi teologi e a frugarne le contraddizioni – resta dunque l’appello sovrano a porsi nei confronti dell’esistenza e del pensiero in una prospettiva di decostruzione e problematizzazione. Anche in senso politico, naturalmente. O forse in primis in senso politico. Laddove nessun «Papa» dovrebbe essere abilitato a legiferare in nome di investiture che non siano rigidamente transeunti.
Cosa pretendeva allora Giorello dalla sua vita? Lo dice, con la consueta ironia, laddove afferma: «Vogliamo costruire qualcosa come una rete senza centro (cioè senza una gerarchia con un Papa al vertice della piramide), una democrazia che guarda con sospetto persino all’idea di una sovranità democratica».
Ecco la parola-chiave, il grimaldello morale: sospetto. Sospettare di tutto, sospettare della Verità perseguendone le parvenze, sospettare dell’autorità, sospettare del predominio delle caste sugli ignari. Sospettare così radicalmente – in una sorta di ascesi della libertà e del libertarismo – da affidare alla propria vita il compito supremo di proporsi come affrancamento intransigente da ogni vincolo e da ogni abuso che pretende di vincolarci.
Potremmo chiamarla Anarchia e di fatto, in senso filosofico – senza scomodare le derive insurrezionaliste e i loro corifei – di Anarchia e di Anarchismo l’esistenza di Giorello fu imbevuta. Un Anarchismo razionale, senza derive o concessioni di ordine mistico o misticistico, ma pur sempre un Anarchismo che permea nel profondo chiunque rilutti all’idea di dover subordinare la Libertà a qualsivoglia dettame (fosse pure metafisico) superiore.
Ricordo un episodio che in qualche misura riassume l’intero «spirito» del filosofo. Eravamo nel suo studio, ovviamente ingombro di opere. Pacchi di libri gli erano giunti da varie parti – editori, amici, studiosi – e lui ne passava rapidamente in rassegna i titoli. Uno, due, tre, quattro, cinque. Al sesto sbottò: «Platone, Platone, ancora Platone! Che palle con questo Platone!». Non aggiungerei altro.
In quello studio lasciato alla deriva – perfettamente, deliziosamente disordinato come la sua zazzera e la sua figura distratta, sempre compresa in preoccupazioni che nulla concedevano al mondano – in quella cella di meditazioni sulla «lotta dell’ateo contro il male» dalla più concreta e pragmatica delle prospettive, Platone risuonava come una visione quasi insopportabile. Qualcosa di troppo etereo, di troppo «platonico», per catturare ancora le nostre passioni.
Dopo aver riposto l’inventore dell’Idea a un canto del tavolo mi disse guardando lontano, verso qualche spazio dove non c’era più se non la sua libertà: «Un bicchiere di whishy alla sera. Questo è soltanto quel che mi importa».
Poi attaccò a parlare e mi raccontò tutto quello che ho riportato nel libro-intervista edito da Aliberti e intitolato Se ti spiegassi la scienza? (libro che verrà a breve ripubblicato in una versione aggiornata).