Il Trattato del ribelle di Ernst Jünger è innanzitutto un tributo all’individualità. E laddove l’individualità è, fin dal responso elettorale, giocoforza minoritaria se ribelle, tale tributo diventa naturaliter un tributo al coraggio. E il coraggio non è spesso altro, nelle moderne democrazie, in misura più estrema nelle moderne dittature, che la precondizione essenziale per la difesa del diritto: “Una forza predominante, infatti, se pure riesce a modificare il corso della Storia, non può creare diritto”.
Vengono in mente, nella loro coraggiosa isolatezza, le parole che Giorgio Agamben ha pronunciato a proposito del pensiero dominante e maggioritario che ha accompagnato la recente e persistente campagna vaccinale: “Di fronte al modo in cui il diritto e la Costituzione sono stati manipolati e traditi, io non posso non revocare in questione la stessa Costituzione e lo stesso diritto”.
In effetti che cos’è un ribelle se non, in primo luogo, chi sa – o perlomeno chi confida, all’insegna del coraggio – che si può mettere in pericolo il potere anche da una posizione minoritaria? Jünger, però, individuato questo nucleo dicotomico paura/coraggio, va anche oltre. Nel ricordarci che saranno necessariamente “delle élites a dare battaglia per una nuova libertà”, ci spiega come l’unica possibilità per uscire dalla paura e dare corpo alla ribellione sia nell’ormai celeberrimo passaggio al bosco, ovvero nella scommessa per la libertà da uno stato di perfetta solitudine. “Appena l’uomo riacquista consapevolezza del proprio divino potere”, nessun potere canonico o costituito possono infatti pretendere di rimanere immuni dal pericolo di un’energia, di un antipotere, in grado di minarli.
Misticismo? No, Jünger è l’antitesi di un mistico, la sua è una visione del destino umano immediatamente ancorata a una critica della rassegnazione che affonda addirittura nella messa in discussione della nostra idea passiva di tempo. Il tempo, cioè la Storia, cioè la Storia dell’essere umano, deve essere agito, secondo lui. E l’azione che apparentemente la Storia ripudia nel suo essere presente, ma che è in grado di portare i propri frutti al di là di qualsiasi annientamento storico provvisorio, è precisamente l’azione del Ribelle. Poiché il Rebell non semina nell’immediato, accorpando immediate maggioranze, ma attraverso una solitudine che si innesta – ovvero si incista – nel tessuto stesso dell’umano e delle coscienze più di quanto possa fare qualsiasi militanza palese.
Il Ribelle è dunque in primo luogo Cristo, ma ancora prima il Socrate che nella sua immolazione segnò e condizionò la Storia più di quanto fecero i poteri che lo mandarono a morte, il Potere nel suo apparente trionfalismo transeunte. Quanto a quale “contropotere o “potere contrario” abiti il fondo combattivo del Rebelle, è presto detto: si tratta, né più né meno – e tutti noi ne abbiamo sperimentato l’esistenza in questo o quel momento di resistenza alla norma, di ribellione al sopruso, di lotta contro il Titano maggioritario – di una divina potenza. Scrive Jünger: “L’umana grandezza va conquistata lottando. Essa trionfa quando respinge nel cuore dell’uomo l’assalto dell’abiezione. Qui è racchiusa la sostanza della Storia, nell’incontro dell’uomo con se stesso, o meglio: con la propria divina potenza”.
Non diamoci quindi mai per perduti. Poiché se al fondo dell’umano abita sempre questa “divina potenza”, ogni nostro comportamento e pensiero può di fatto generare il ritorno del Tempo all’essenza e dell’uomo alla sua qualità quintessenziale. E se questo sacrificio, questo eroismo solitario, presuppone giocoforza un “nuovo monachesimo”, che si prenda atto che in esso è il portato migliore della Storia, perché la innerva di nobiltà e la sottrae all’idem sentire del conformismo, della rassegnazione, della paura e del disincanto. “L’uomo del progresso, del movimento e delle manifestazioni storiche deve fare i conti con la propria essenza immodificabile, sovratemporale”, e se questa essenza immodificabile lo chiama ad “attingere alle fonti della moralità non ancora disperse nei canali delle istituzioni”, è perché appunto il suo spirito è fondamentalmente teso a rendere possibile – ecco la suprema moralità – la sopravvivenza della specie e cioè dell’uomo stesso. “Il meccanismo, in effetti, si rivela sempre più minaccioso: l’uomo si trova al centro di una grande macchina ideata per distruggerlo. E ogni razionalismo sfocia nel meccanicismo, e ogni meccanicismo nella tortura”. Ma il Rebell può porvi argine ricordandoci chi siamo e perché possiamo continuare a esserlo.