Si interroga sul tempo ultimo. Si scopre curiosa per le trasformazioni che accompagnano il tratto conclusivo della vita, “quasi a scrutare nelle fessure dell’esistenza”. Quel tempo che “dapprima sporadicamente, poi sempre più inesorabilmente” ha percepito “imprimere segni più o meno vistosi” nella carne, nel sentire, e che Gabriella Caramore, per anni autrice di Uomini e Profeti su RAI RADIO3, chiama “L’età grande”, così il titolo del suo ultimo lavoro per Garzanti, squarci su “paesaggi inesplorati” fino al desiderio inaspettato di “sentirsi vivi, proprio quando s’insinua la consapevolezza della fine”.
L’ultimo lavoro di Caramore è condensato in poco più di cento pagine, lampi che traggono il proprio incipit dalla consapevolezza di vivere in una continua metamorfosi. Tutto muta. La storia, il mondo, il proprio corpo: “Ho conosciuto – scrive Caramore – i banchi di legno con il calamaio incorporato per l’inchiostro, il riscaldamento a carbone, la ghiacciaia, strade libere dal traffico dove si poteva pattinare e andare in bicicletta, le sezioni femminili e maschili nelle scuole primarie, l’arrivo del telefono in casa, più tardi l’arrivo degli elettrodomestici, della televisione: legami famigliari e amicali non peggiori né migliori, ma più semplici, almeno nel ricordo”. Poi, una ventina di anni fa, una battuta d’arresto, “un insulto”, come lo chiamano i medici, da cui Caramore si riprende, ma che nello stesso apre la consapevolezza dell’entrata “in un’altra età della vita”. Ed eccola, quindi, l’età grande, “quella fatta di un grande numero di anni, quella che comporta, a guardar bene, una rivoluzione del modo d’essere, di guardare il mondo, di sopportarlo o di goderne, di aver cura del poco che rimane, di sperare talvolta che qualcosa, nel bene, possa accadere. E di alzare almeno di poco quel velo segreto che ci separa da ciò che incautamente posso chiamare ‘nulla’, solo perché è totalmente inconoscibile”.
Il senso del sacro
Moby Dick 24.11.2018, 11:00
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Gabriella Caramore da anni narra ciò che troppo spesso giornali, radio e tv lasciano in secondo piano, come non meritevole di attenzione. E cioè il profondo, l’indagine filosofica e letteraria insieme, quindi religiosa, intesa come, per dirla riprendendo il teologo protestante Paul Tullich, il “luogo di confine della conoscenza”. Dopo riflessioni sull’infanzia, sulla pazienza, ed una, addirittura, sulla parola Dio, eccone una sull’ultima età, non certo la stagione più bella, ma senz’altro quella capace “di avere consapevolezza di sé”, la “coscienza della brevità dei giorni, dell’inconsistenza del vivere, ma anche della sua incancellabile grandezza”.
Come Oliver Sacks, Caramore racconta dell’avvicinarsi al faccia a faccia con la morte seppure “non ho ancora chiuso con la vita”. Il paesaggio umano si svuota, si impoverisce, “come una foresta a cui di tanto in tanto viene strappato un albero, magari vetusto e rinsecchito, oppure giovane e ancora frondoso, finché la foresta cambia aspetto, perde rigoglio, si fa radura secca, non più riconoscibile”. Innanzi a questa stagione dove tutto muta e svapora, “le sapienze di tutti i tempi falliscono nel dare risposte”. Ma insieme confortano “nel metterci di fronte, dolcemente, lentamente, alla inesorabile realtà di quanto accade. Aiutandoci ad accettare che vivere comporta anche perdere. E nella perdita si può anche trovare consolazione”.
Tutt’intorno il morire delle persone amiche, amate, o anche solo conosciute, diviene un dato di fatto. Così anche la perdita dei genitori, dei famigliari, un’esperienza che “scava un pozzo profondo che ci risucchia dall’interno, lasciandoci affiorare quel tanto che basta per continuare a vivere”. “I genitori – ha scritto un’amica a Caramore – restano come una parola sotto la lingua, che ti porti sempre con te”.
E ancora altri lampi, nella notte che avvicina alla morte. Quelli che nella cultura giapponese sono sorti intorno al IX-X secolo, il cosiddetto jiseì, brevi componimenti poetici che i morenti vergano poco prima dell’ultima ora. Scrive Tetto Giko, nel 1369: “Faccia a faccia col buio della morte / anche la dottrina non vale più niente. / Una giravolta e il corso s’inverte, / l’alto del cielo ora in terra discende”.
Nell’ultima età ritornano tanti testi. Anche il Nuovo Testamento, con quella sconfitta mai fino in fondo ammessa: “Sì, vengo presto”, recita l’Apocalisse. Senza che quel “vengo” si sia mai avverato: “Ormai – scrive Caramore – il mondo dei credenti al tempo dell’attesa ha sostituito il tempo della resa”. Si tratta di una sconfitta che non ha insegnato nulla perché la si è cercata di nascondere. Mentre, se la si guarda attraverso “il filtro di una critica radicale dei valori mondani” sollecita “l’urgenza di un mutamento qui ed ora, di una assunzione di responsabilità verso l’altro e verso sé stessi”. E ancora: “Allora non si tratta di una resa… Ma di una reinterpretazione delle Scritture antiche alla luce di questo tempo. Ponendo l’accento su ciò che l’umano può fare ed essere, con il cuore e le mani che gli sono date”. Come scrive Anna Maria Ortese: “Alla fine, non tutto è sogno, credo, qualcosa – la sfida, la fraternità – resta”. “Resta la sfida – chiosa Caramore – di aver provato a vivere. E la fraternità che ci ha accolto e che abbiamo creato. Della quale, comunque, siamo parte”.
Cosa resta, allora? Cosa dire ancora dell’indicibile, appunto della morte? Intanto che prima dell’aldilà di cui non sappiamo, c’è un al di qua da preservare, custodire, amare, “quel piccolo pezzo di mondo e di umanità, e di cielo, e di fraternità che ci siamo trovati a vivere”. In sostanza, la strada è una: “Tenere aperta la sfida dell’incommensurabile e costruire sempre di nuovo la fraternità in pericolo”. Insomma, “c’è tempo per molto altro ancora”. Su tutto, la memoria e il perdono, “quel dono per altri che finisce per essere anche dono a noi stessi”.