Due volte candidato al Nobel – la prima (1943) per la letteratura e la seconda (1950) per la pace, anche se la cosa gli era pressoché indifferente – Śri Aurobindo (Calcutta, 1872 – Pondichéry, 1950) è stato una delle più straordinarie figure vissute a cavallo fra il XIX e il XX secolo.
Di agiata famiglia bengalese, crebbe inizialmente in Inghilterra, dove il padre medico aveva studiato e voleva che i suoi figli si formassero (desiderava tenerli alla larga dalle tradizioni locali, che col loro «misticismo fumoso» avevano «portato l'India alla rovina»). La solida cultura occidentale di Aurobindo Ghose – questo il suo nome di battesimo – tradì però le aspettative paterne: al suo ritorno in patria, si chinò sull'antica letteratura indiana, iniziando ad elaborare un pensiero che col tempo sarebbe stato definito «la più completa sintesi fra il genio dell'Asia e il genio dell'Europa».
Ma chi era esattamente questo ragazzo, allora ventenne e completamente anglicizzato? Difficile dare una definizione.
Śri Aurobindo, Cambridge, 1890-92
In prima istanza, è importante ricordarlo, Aurobindo fu soprattutto un poeta. E un poeta grande, profondamente influenzato dalle letture con cui, giovanissimo, si circondò proprio nei suoi primi anni: Shelley, Mallarmé, Rimbaud, ma pure Dante e Goethe (che leggeva perfettamente in lingua originale), Omero e Aristofane. Autore di drammi lirici, di saggi letterari e filosofici, al momento di consegnare il proprio decisivo testamento intellettuale, non a caso fu alla poesia che Aurobindo si volse, redigendo ciò che è considerato oggi il suo capolavoro: Savitri, un poema epico di migliaia di versi.
Secondariamente, col tempo Aurobindo fu, come Gandhi e Tagore, un'importante figura del movimento indipendentista indiano. Nel 1893, al momento di lasciare Cambridge per Baroda, dove andava a servizio dal Maharaja, presto si rese conto della situazione del suo paese. Allora, attraverso un'intensa attività di redattore e collaboratore di giornali locali, prese a dedicarsi alla causa nazionale sostenendo il movimento di liberazione e finendo coll'essere definito dalle autorità come «l'uomo più pericoloso con cui abbiamo a che fare».
Infine, come forse la maggior parte sa, Aurobindo fu un'altissima figura di asceta e di coltivatore dell'anima. In seguito a due incarcerazioni, conseguenti a un'azione penale nei confronti del periodico che dirigeva e a un attentato ad Alipore – fu scagionato da entrambe le accuse – nel 1910 lasciò Calcutta per rifugiarsi nella colonia francese di Pondichéry. Qui abbandonò la politica per dedicarsi a un'altra battaglia, più radicale di ogni altra: quella “contro” il corpo, nella sua visione ostacolo e trampolino verso una nuova coscienza.
Attorno alla sua persona si formò quindi una piccola comunità di adepti, che dibattendo sulle sacre scritture e sulla riforma dello yoga tradizionale – Aurobindo vi si dedicava già dal 1908, quando aveva incontrato Visnu Bashkar Lelé – cercava di praticare l'esperienza interiore in un modo diverso, aderente al presente. Alternando la meditazione allo studio filologico, il gruppo e il suo leader giunsero alla conclusione che i tempi fossero maturi per «una nuova umanità»; che l'illuminazione, il paradiso e quant'altro non erano una promessa, ma una condizione da creare al più presto.
Nel medesimo periodo alle stesse idee era giunta Mirra Alfassa, nota ai più come Mère, altro incredibile personaggio di questa storia: nata a Parigi nel 1878, aveva ricevuto una formazione scientifica per poi orientarsi verso l'ambiente artistico. Ciò che più la contraddistingueva era però una propensione all'occulto, tanto che sosteneva di aver vissuto esperienze extracorporee e di contatto col paranormale. Quando nel 1914 conobbe Aurobindo, comprese immediatamente che l'incontro aveva il valore di una chiamata.
Insieme fondarono il periodico bilingue «Arya», destinato a divulgare interpretazioni dell'Upanisad, delle Jtihasa, dei Purana e di altri scritti. Dopodiché, in seguito a un periodo di allontanamento (unicamente fisico) diedero vita all'Ashram, luogo di ritrovo attorno a cui andava allargandosi la comunità dei discepoli. Contemporaneamente Aurobindo scriveva alcuni dei suoi libri più importanti, come Il segreto dei Veda e La vita divina (la sua opera omnia è immensa, poco tradotta in confronto alla mole originale).
Poi, nel 1926, la svolta: radunati tutti, Aurobindo annunciò che si ritirava nell'Ala Est per perseguire la propria Sadhana (vale a dire, la propria “realizzazione spirituale”) e che la cura dell'Ashram passava alle mani di Mère. Da quel giorno, il poeta-mistico non uscì più dalla sua stanza, se non raramente, massimo tre, quattro volte all'anno. Si dedicò alla riflessione, alla fitta corrispondenza che intratteneva con molteplici interlocutori e al sopraccitato Savitri, condensato lirico di un'esistenza volta interamente alla trasformazione di sé così come dell'umanità.
Quando nel 1948 gli chiesero il motivo del suo isolamento, rispose che «era necessario, perché bisognava che affiorassero certe realtà, per poi potersene liberare. Se davvero deve nascere un mondo nuovo e migliore», continuò, «ciò non poteva essere rimandato a più tardi... Il nuovo mondo che intravediamo non sarà fatto con la stessa struttura del vecchio, perché ci sarà una differenza: esso dovrà costituirsi dal di dentro e non dal di fuori». Due anni dopo Aurobindo Ghose – ora per tutti Śri Aurobindo – «lasciò il corpo» perché Mère ne continuasse l'opera. Lei lo raggiunse infatti solo dopo un ventennio di yoga, ossia all'età di novantacinque anni.