Filosofia e Religioni

Søren Kierkegaard

Quando la filosofia unisce il pensiero all’amore

  • 28.03.2022, 00:00
  • 14.09.2023, 09:19
Søren Kierkegaard allo scrittorio in una rappresentazione del pittore Luplau Janssen (Wikipedia)
Di: Marco Alloni 

La filosofia e il suo linguaggio: ecco un tema su cui si potrebbero spendere trattati. Ma allo stesso modo: la filosofia e il suo sentimento delle cose. Nel corso degli anni ho potuto notare che più la filosofia era filosofica e meno il suo messaggio – o se vogliamo, la sua verità – mi sembrava eloquente. Mentre più la filosofia era poetica – o se vogliamo, sentimentale – e più qualcosa di prossimo alla verità mi pareva palpitare nelle sue pagine.

Senza nulla togliere ai contenuti «oggettivi» dei rispettivi filosofi, un senso di incantamento per il pensiero l’ho dunque quasi sempre incontrato solo laddove esso abitava una forma sentimentale, una forma poetica, una forma passionale che trascendeva il mero dettato razionale.

Per intenderci: laddove Hegel o Kant restano, anche per l’indegno lettore che sono, degli indiscussi maestri, Nietzsche e Schopenhauer, proprio in virtù del loro linguaggio, sono diventati anche filosofi amati. E non perché una forma può essere banalmente più suggestiva di un’altra, ma perché una verità di sguardo che non accolga come tramite tra noi e il mondo la forma del sentimento, con tutto ciò che di irrazionale e personale, soggettivo e imperfetto porta con sé, non è probabilmente se non una verità parziale di sguardo. Quella, per dirla in soldoni, che tutto spiega attraverso la ragione e nulla evoca attraverso la poesia. Ovvero: la verità di sguardo della filosofia pura, da contrapporsi a quell’impura intelligenza del mondo e dell’uomo che è, tanto più dirimente quanto meno si pretende esaustiva, la verità poetica, sempre mi ha destato un certo instintivo sospetto.

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Kierkegaard e la filosofia nell’esistenza

Oggi, la storia 11.01.2013, 01:00

Premetto tale rapida celebrazione del sentimento impuro sulla pura razionalità perché è precisamente entro questa predilezione per la filosofia «poetica» che prende corpo il mio amore per Kierkegaard. Laddove infatti centinaia di studiosi hanno scritto in termini di oggettiva esattezza di questa o quella forma di classicità, di immortalità o eternità, Kierkegaard l’ha fatto con un amore che, questo sì, probabilmente non ha pari in nessun altro filosofo. E proprio questo amore rende la sua lingua, oltre che il suo pensiero, così appassionatamente personali da toccare le corde della nostra universale propensione a dargli credito.

Di che cosa stiamo parlando? Di quella che nel suo libro maggiore, Enten eller, è stata probabilmente la sua intuizione più bella anche se non necessariamente la più vera: aver colto in Mozart, nello specifico nel suo Don Giovanni, la quintessenza del genio. Ponendo così, sul piano della classicità musicale, il musicista di Salisburgo – come su un piano letterario l’Omero dell’Odissea – a una sorta di vertice assoluto. E questo secondo il convincimento – così incantevole e personale, così gerarchizzante ma così romantico nella sua selettività – secondo cui l’unico genio che ha colto la perfetta cointeressenza tra materia e forma nel mondo della musica è stato appunto Mozart.

Scrive Kierkegaard: «Con il Don Giovanni Mozart entra in quell’eternità che non sta al di fuori del tempo ma nel cuore di esso».

Ora, non spetta a noi né tanto meno, probabilmente, a qualsiasi pur ferrato musicologo, decidere se questa classificazione, come la definisce lo stesso filosofo, abbia una sua legittimità o meno. Ma quel che affascina nell’approccio filosofico e sentimentale di Kierkegaard è appunto questo: che egli decide per sé, e vocazionalmente auspica per tutti, che questa sia una verità. E sulla base di tale appassionato convincimento costruisce la propria celebrazione di Mozart.

Si tratta di qualcosa di arbitrario? Certamente. Ma di quale meraviglioso arbitrio! Si tratta di qualcosa di pretestuale, per sviluppare, dentro Mozart e oltre Mozart, la propria personalissima «filosofia dell’erotico e della seduzione»? Probabilmente sì. Ma quel che qui si vuole rilevare è che Kierkegaard non intende giocare sul piano degli assoluti partendo da noumeni, da cose in sé, da enti o esseri, da concetti, da princìpi astratti – ma da quella materia concretissima che è il capolavoro musicale di Mozart e Da Ponte.

Questo mi pare di una importanza addirittura commovente, quasi di una paradossale profondità: giacché ci invita a credere che senza amore può esserci solo una verità disumana, mentre con amore può esserci viceversa una verità umana. Perfetta la prima, imperfetta la seconda, naturalmente, ma proprio per questo tanto più appassionante la seconda e tanto più deprimente e annichilente la prima.

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