Può l’inutile essere indispensabile? Sì, e per spiegarlo - riuscendo a convincere anche chi davanti a una rampa di scale cerca l’ascensore - Lionel Terray ci ha impiegato un libro; e una vita. Il libro è I conquistatori dell’inutile (Les conquérants de l’inutile: des Alpes à l’Annapurna, 1961) e la vita la sua. Classe 1921, di Grenoble, famiglia borghese, Lionel Terray è stato uno dei più grandi alpinisti della storia. Il suo, quello della sua generazione, era l’alpinismo inospitale, severo, spesso misero, scomodo e rudimentale, piuttosto ignorato. L’alpinismo a.G. (ante Gore-Tex), ruvido come la lana e comodo come un copertone, ottima suola per scarponi in caso di necessità. L’alpinismo di falangi seminate per la via, di dita nere carta carbone che si sfaldano come cannoli, dei nasi di Similaun e delle fasciature che nemmeno Ramsete II. Non che l’alpinismo di oggi sia una passeggiata di salute, non che lassù non si continui a morire e lasciare estremità, ma indubbiamente l’alpinismo dei Terray sta all’alpinismo di oggi come la tradizione orale sta a Netflix. Talmente estremo da faticare a immaginarlo. Almeno fino a quando non ci si arrampica sulle pagine de I conquistatori dell’inutile. Lì, le cose cambiano.
Il libro di Terray è una riga - o corda - tirata: fin qui tutto bene; fin qui è andata così. E così è un’infanzia borghese a Grenoble, con le montagne all’orizzonte e l’agio intorno, i vent’anni a Chamonix, avvicinando il freddo e allontanando i caminetti, le lezioni di sci e guide alpine per concedersi il sogno: concedersi l’inutile dopo l’insensato. Dopo la guerra. Inutile è sfidare chi non replica, ma semplicemente sta. Sta a precipizio, sta sferzata dal vento e cotta dal sole, sta così com’è, immobile e inamovibile, scolpita dalla storia del mondo di cui tu, sfidante, non sei che un segno di punteggiatura. Che sta, ferma e gelida, a prescindere che tu possa arrivare in cima, arrenderti a metà o precipitare a un tiro di corda dalla cima; perché a lei, della tua sfida, non gliene può importare di meno. Tutta roba tua e del tuo ego.
Il cuore narrativo de I conquistatori dell’inutile è il racconto della prima ascesa dell’Annapurna, la prima conquista umana di un 8 mila. È la storia di un trionfo francese costato mesi di preparazione, mesi di salita, una dozzina di falangi, almeno due piedi e una passione incalcolabile. È l’impresa di Maurice Herzog, il capo-spedizione, Jean Couzy, Marcel Schatz, Louis Lachelan, Gaston Rébuffat e Lionel Terray. E poi Jacques Oudot, il medico, e Marcel Ichac, il regista che firmerà Les Étoiles de midi (1958) e che a Terray dedicherà il documentario omonimo (Le Conquérant de l’inutile, 1967). Con loro, come sempre, i “soliti” dimenticati, gli sherpa, i muli locali che si contano ma non si citano, anello di congiunzione tra Sisifo e l’essere umano. Così era una spedizione: conquistatori in equilibrio tra passione e professioni, esperienza e destino, simile a una caravella senza mare, che all’orizzontale preferisce il verticale, ma con lo stesso complemento di specificazione elementare di quel mal, di mare o montagna che sia.
Il racconto della salita all’Annapurna, meravigliosa rappresentazione nepalese di “massiccio”, è un racconto lungo oltre due mesi (dalla partenza del 30 marzo all’arrivo in vetta del 3 giugno 1950) carico di anima e pratica, di cose e di emozioni. Ci sono le vettovaglie, l’attrezzatura, i treni, la logistica, i calcoli, le strumentazioni, le carte bollate e i bollettini, le ambasciate. E poi la voglia, l’adrenalina, l’attesa, la passione, la frenesia, la concentrazione, l’indole, la fragilità, il coraggio, la paura e la sofferenza. Ci sono i due estremi più distanti e collimanti in assoluto, vita e morte, mai così esposti faccia a faccia, in bilico e aggrappati, blu come il cielo più alto che un naso all’aria possa avvicinare e nero come una tempesta senza luci che non siano lampi. Le pagine di Terray, lui che tutto era meno che uno studente modello o un letterato, sembrano dettate dagli elementi, capaci di irrigidirsi come il ghiaccio o scorrere come un discesa, ferire come una capocciata a uno spuntone di roccia o rinfrancare come un tè caldo appesi sotto un seracco. Imitando un’ascesa, sulla carta un metro può durare quattro pagine e schiantare il lettore all’idea che se l’orizzontale può essere lungo, il verticale può essere eterno. Come il riposo.
Il racconto della sofferenza, del freddo, della vista che vira al nero perché bruciata dalla neve, delle estremità che lasciano il pensiero prima del corpo, sono una tortura nero su bianco, un requiem che non parla latino ma la lingua dei segni, e dei lividi.
Poi c’è l’ego, protagonista imprescindibile, indispensabile per giustificare quel qualcosa capace di spingerti fino a un tiro oltre il sopportabile, nell’ipotesi concreta di dover lasciare pezzi di te per strada. Letteralmente. Qui però, anzi lassù, l’ego non è esaltazione del sé, ma totale devozione a ciò che si è, si sente e desidera. Non dunque ciò con cui spesso si sono condannati i Walter Bonatti e Reinhold Messner, puntando il dito contro qualcosa di incomprensibile e quindi “egoista”, semplicemente perché incapaci di spostare il punto di vista al di fuori dal proprio orizzonte (a proposito di ego). E quindi i “ma chi te lo fa fare?”, “e la famiglia?” e “ne vale la pena?”. La risposta - probabilmente - è “sì”, perché non esiste niente di più libero di ciò che è inutile. Probabilmente in questo Lionel Terray, partigiano francese della seconda guerra mondiale, è stato precursore della rivoluzione culturale, sessantottino di Chamonix, borghese all’addiaccio che a una facile esistenza orizzontale ha preferito una faticosa umanità verticale. Che a un agire vantaggioso ne ha preferito uno gratuito. Inutile.
Su questa montagna fiera e bella abbiamo vissuto ore di fraterna, calda ed esaltante nobiltà. Qui per qualche giorno abbiamo smesso di essere schiavi e siamo stati veramente uomini
L. Terray, I conquistatori dell’inutile (1961)
Ah, Terray in cima all’Annapurna non ci arrivò. Ci arrivarono Louis Lachenal, suo amico fraterno, e Maurice Herzog. Ed entrambi, senza Lionel, da lassù non sarebbero mai tornati.
Senza mai arrivare in cima
RSI Cultura 05.04.2019, 18:00
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