Non è certo paragonabile al fin troppo favoleggiato e sceneggiato “démon du midi”, però la sua insorgenza è tutt’altro che asintomatica e in ultima analisi piuttosto fastidiosa. Lo si potrebbe definire “démon du mécontentement”: la soglia è abbastanza variabile, ma la si può situare pressappoco intorno ai cinquant’anni, quando si tirano le prime somme e capita talora di accorgersi che nella vita non tutto è andato come doveva andare. Questo particolarissimo “demone” possiede inoltre una specifica dimensione musicale, che riguarda gli artisti che hanno avuto un enorme successo da ventenni, all’inizio della carriera, ma in seguito sono lentamente quanto ineluttabilmente scivolati ai margini.
Famosissimi a vent’anni e semidimenticati a cinquanta, più o meno smarriti in un vicolo cieco: sono molti i gruppi e i solisti che hanno dovuto fare i conti con questo triste e malinconico destino. Taluni reagiscono replicando indefinitamente sé stessi, come se niente fosse, con esiti spesso imbarazzanti (un eventuale censimento delle band ormai ridotte al karaoke di se stesse fornirebbe esiti piuttosto deprimenti). Altri, invece, si confrontano col “malcontento” della mezza età e riescono a trasformarlo nella base per una nuova e diversa stagione creativa.
E’ il caso del saturnino, talentuoso e raffinatissimo Lloyd Cole, nato nel 1961 a Buxton nel Derbyshire ma cresciuto a Glasgow, ex bel tenebroso e da sempre “Mister Malcontent” (come dice il titolo di un suo brano dell’archeologico 1987), famosissimo negli anni Ottanta col gruppo dei Commotions grazie a tre dischi che costituiscono altrettante pietre miliari: il fulminante esordio di “Rattlesnakes” tra il 1983 e il 1984, trainato dal singolo “Perfect Skin”, e poi “Easy Pieces” del 1985 e “Mainstream” del 1987. Se “Easy Pieces” e “Mainstream”, a distanza di quasi quattro decenni, mostrano qualche lieve segno del tempo, “Rattlesnakes” rimane il tipico esempio del disco perfetto uscito nel momento giusto: oltre lo stucchevole synth-pop e la new wave, che stava ormai diventando la parodia di se stessa, in direzione di un folk-rock prevalentemente acustico che recuperava sonorità degli anni Sessanta -in particolare i Byrds e i Velvet Underground- e talune suggestioni del pop-rock decadente del primo Bowie e dei T-Rex di Marc Bolan.
Accordi sciolti e veloci, melodie di rara compattezza, ritornelli “killer”, un larvato e volutamente compiaciuto tono blasé nell’interpretazione e infine un altissimo livello delle liriche, con storie di cuori infranti (come nella notissima “Are You Ready To Be Heartbroken?”), speranze destinate ad andare deluse e tutto il repertorio degli eterni e sempre nuovi “enfants du siécle”, riletto però con una sottile malinconia che sfociava spesso nell’ironia e perfino nella satira. Insomma, quella che si suol definire un’alchimia perfetta.
Tuttavia le alchimie perfette, anche nella musica, tendono a durare poco. Sciolto il gruppo alla fine del decennio, Cole si è trasferito negli Stati Uniti e ha intrapreso una carriera come solista che negli anni a seguire gli avrebbe riservato non pochi alti e bassi: un paio almeno di dischi eccellenti (in particolare il cosiddetto “X Album” del 1990, trainato da un brano da antologia come “No Blue Skies”), e alcune prove oggettivamente meno riuscite. Ma soprattutto cinque anni di quasi totale silenzio, dal 1995 al 2000, dovuti al fatto che la sua casa discografica, la multinazionale PolyGram, lo aveva appiedato senza troppi complimenti in quanto il suo folk-rock molto letterario e disseminato di citazioni colte (da Simone de Beauvoir a Norman Mailer, solo per ricordare i due riferimenti contenuti nel brano “Rattlesnakes” e in “Are You Ready To Be Heartbroken?”) era considerato ormai poco “glamour” e non al passo coi gusti dell’epoca.
Difficile dire se e quanto fosse poco “glamour” per l’epoca, ma è fuori di dubbio che Lloyd Cole ha fatto poco per adeguarsi alle regole dell’industria musicale. Lo dimostrano tra l’altro i titoli dei suoi lavori, volutamente fuorvianti, speziati di humor britannico, che rimandano quasi sempre a un contenuto almeno parzialmente diverso rispetto alle reali atmosfere espresse dal disco in questione e dalle singole tracce. La lista è lunghissima e copre in pratica tutta la sua discografia, da “Easy Pieces” (“Pezzi facili”) fino a “Broken Record” (“Disco rotto”) del 2010, passando per provocazioni un po’ “canaille” come “Bad Vibes” del 1993 (“Cattive vibrazioni”, con un esplicito e divertito riferimento allo stantio cliché del rockettaro “maudit”), “Love Story” del 1995 (che in realtà era una variazione in dodici tracce sul tema dell’amore infelice, come nel singolo “Like Lovers Do”), “Music in a Foreign Language” del 2003 (il cui messaggio era pressappoco questo: meglio le canzoni cantate in una lingua straniera che non si comprende) e soprattutto “Antidepressant”, del 2006, che col suo mood splenetico e autunnale non aveva propriamente l’effetto di un antidepressivo.
Nel 2013, varcata la fatidica soglia dei cinquant’anni, ed esattamente tre decenni dopo il successo di “Rattlesnakes”, l’ex bel tenebroso ma pur sempre “Mister Malcontent” Cole ha dato una prima sostanziale svolta alla propria carriera con la pubblicazione di “Standards”, un disco che ha ripreso tutte le suggestioni e le inimitabili sonorità che avevano fatto la fortuna del ventenne negli anni Ottanta. Ma con un approccio diverso, già parzialmente ravvisabile nel semielettronico “Music in a Foreign Language”, e un titolo ancora una volta un po’ misterioso, che di primo acchito aveva fatto pensare a un disco di cover.
La svolta decisiva si è tuttavia verificata nel 2014, quando Cole ha realizzato un disco insieme all’allora ottantenne Hans-Joachim Roedelius, autentica icona della musica elettronica tedesca, il “Krautrock”, prima col gruppo dei Cluster e poi come solista, compositore e arrangiatore. I punti di contatto sembravano davvero pochi, ma le affinità elettive -anche nella musica- seguono spesso percorsi molto sorprendenti. Nel caso specifico di Cole e Roedelius, il percorso comune ha avuto inizio nel 2001, quando Cole diede alle stampe “Plastic Wood”, un disco composto interamente al computer che attirò l’attenzione di Roedelius, anche grazie a comuni amici tedeschi (soprattutto Dirk Darmstaedter, musicista e proprietario dell’etichetta di Amburgo “Tapete / Bureau B Records”, che ha pubblicato alcuni degli ultimi lavori di Cole e molti dischi di Roedelius).
Dopo un decennio di contatti epistolari e una collaborazione a distanza in un brano del disco “Lunz”, realizzato nel 2004 da Roedelius insieme a Tim Story, i due si sono incontrati per la prima volta a Vienna e hanno gettato le basi per un progetto che si è concretizzato in un disco dal titolo “Selected Studies Vol. 1”, le cui dieci tracce disegnano altrettanti paesaggi sonori in una fitta trama di impressioni, trasparenze e combinazioni ritmiche che talora ricordano Debussy (in particolare le conclusive “Virginie L” e “Lullerby”) e in altri casi (ad esempio in “TangoLargo” e nella straordinaria quanto ostica “Wandelbar”) si spingono perfino oltre le frontiere della musica atonale. Era possibile tornare al pop-rock tradizionale per “cuori infranti” dopo una simile esperienza? Evidentemente no. Anzi, era ormai tempo per esplorare nuovi territori e per situare il “démon du mécontentement” all’interno di una rinnovata cornice sonora. Il che è puntualmente accaduto nel 2019 con la pubblicazione di “Guesswork”.
Consapevole -e forse timoroso- che i seguaci vecchi e nuovi sarebbero rimasti sconcertati al cospetto di un lavoro interamente elettronico, Cole ha fatto precedere l’uscita del disco da una sorta di “excusatio non petita”, nel tentativo di spiegare il perché di una svolta così radicale: «Quando avevo venticinque anni, l’idea di una persona più anziana e senza futuro mi sembrava divertente ma anche un po’ strana. Ora sto iniziando a pensare che l’età avanzata potrebbe essere molto più divertente. Perché, in ultima analisi, cosa abbiamo da perdere?». Il che sostanzialmente è vero, amaramente vero. Comunque sia, “Guesswork” -dubitoso fin dal titolo, che significa “congetture”- è un disco che ha poco o nulla a che vedere con la precedente produzione di Cole.
Il freddo e quasi glaciale “Guesswork” (il cui mixaggio è stato realizzato non a caso agli studi Tonfabrik di Düsseldorf, città degli amatissimi Kraftwerk e storica capitale del Krautrock) è infatti un disco di otto brani della durata media di sei minuti, tutti costruiti su una strumentazione fatta di synth modulari e campionamenti di batteria, con l’unica presenza “fisica” costituita dalla voce di Cole e dalle chitarre elettriche. L’ascolto è un po’ disorientante, perché deve regolarsi su coordinate completamente diverse rispetto ai precedenti dischi. Ma c’è una spiegazione, e la si può facilmente trovare nei testi: crepuscolari, “elettronicamente” malinconici, sospesi talora tra il surreale e il tragicomico, e soprattutto permeati della saggezza di chi ha capito che a una certa età restano soltanto le “congetture”. E non rimane più niente da perdere: “To be there in the morning / To be where in the morning?”, come dicono due versi dell’iniziale “The Over Under”.
Le otto tracce di “On Pain”, il disco che il 62enne Cole ha fatto uscire esattamente quarant’anni dopo l’esordio di “Rattlesnakes”, costituiscono nel loro insieme una sorta di continuazione di “Guesswork” con gli stessi mezzi, ma verso territori ancora più impervi, davvero molto vicini a certe sperimentazioni dei Kraftwerk e dell’amico Roedelius. La distanza rispetto al folk-rock degli esordi è ormai siderale, e poi il titolo, come nel caso di “Guesswork”, non è fuorviante: nel disco ci sono davvero un sottile male di vivere e un disincanto solo parzialmente risolti nella consueta ironia, e anzi accentuati da una dimensione sonora e una voce che sembrano non possedere più nulla di umano, non soltanto perché sono prodotte e rielaborate artificialmente (in tutti i brani è stato utilizzato il vocoder).
Per farsene un’idea, basta ascoltare i quattro minuti di sospensione totale di “This Can't Be Happening”, con la voce filtrata di Cole che si insinua e poi si confonde letteralmente in un loop di synth e riverberi, ripetendo come un mantra i tre versi “You can’t believe it / It can’t be possible / But it’s happening now”; oppure gli oltre sette minuti della conclusiva e ipnotica “Wolves”, con l’evocazione di uno scenario distopico rappresentato dai lupi che scendono dalle montagne, prendono possesso delle città e contemplano sbigottiti i raggiungimenti, le vaporose utopie ma anche gli orrori prodotti dalla civiltà umana («Le vostre prigioni / I vostri macelli / La vostra democrazia / Voi che adorate falsi idoli / Voi che amate cose morte / Voi che vi inginocchiate di fronte ai tiranni / La vostra mancanza di immaginazione»).
Lo scenario distopico diventa apocalittico -ma sinistramente reale e concreto, quasi da cronaca quotidiana- nella traccia all’apparenza più tradizionale (almeno sul piano melodico), “Warm by the Fire”, che sembra quasi un racconto uscito dalla fantasia di Ballard: le città bruciano, ci sono «pire di televisori morti che salgono fino al cielo / monumenti al nostro ingegno», le strade sono piene di automobili in fiamme, ma gli umani continuano a vivere come se niente fosse e acquistano articoli inutilmente lussuosi pagando con le carte di credito, perché in fondo «non c’è salvezza dal gelo e dalla glaciazione / però fa caldo vicino al fuoco».
“Game over”, come recita la scritta che compare più volte, in maniera quasi subliminale, tra le varie sequenze del video. In effetti, fa caldo vicino al fuoco. Molto, troppo caldo. Ecco perché è difficile non condividere le malinconie e le tristezze che Mister Malcontent alias Lloyd Cole, dal suo personalissimo esilio elettronico, esprime e comunica negli ultimi versi: «Non ho scritto io questo copione / Non compaio in questa scena / Non leggerò questa parte / Queste carte non mi appartengono / Questo non è lo stato in cui mi trovo / Questo non è il ruolo che mi è stato assegnato / Questo non sono io / Però fa caldo vicino al fuoco / Vicino alle fiamme».