Le storie dei Beach Boys non sono vere, ma sono meravigliose. Il documentario intitolato semplicemente The Beach Boys arriva su Disney+, a ricordarci che la parabola del gruppo più influente degli anni Sessanta americani non si può riassumere in due ore (e che Brian Wilson ha fatto piangere Paul McCartney)
C’è quella storia che parla di California, di ragazzi che per primi cavalcano le onde, trasformando un passatempo in movimento giovanile prima, stile di vita poi. Capelli lunghi e pochi passi sulla spiaggia a loro bastano, per conquistare bionde esplosive.
C’è quell’altra storia, di una famiglia allargata che diventa band, e con il solo potere del talento crea un mito che va molto oltre la musica. Ma queste storie non sono vere. O forse lo sono, però da qualche altra parte. Non sono la storia dei Beach Boys.
Di cosa parliamo, quando parliamo di uno dei gruppi più importanti degli anni Sessanta americani, che tracimano nei Settanta, e poi nei decenni successivi, quando la musica dei Beach Boys affascina e influenza molti altri musicisti capaci di cambiare la storia del rock e del pop? Probabilmente, parliamo soprattutto di cose che sembrano vere, ma non lo sono. Parliamo di una superficie perfettamente liscia su cui all’improvviso si aprono inquietanti crepe. Di musica piena di felicità, e allo stesso tempo incredibilmente triste. Come sia stata possibile, solo Dio lo sa.
Il film fa un buon lavoro anche nel raccontare proprio come quelle voci fossero uniche: non singolarmente, ma insieme. Brian Wilson è sempre stato descritto come un genio solitario, i cui arcinoti problemi mentali – poi sfociati in forme di ansia e depressione sempre più acute – erano parte del pacchetto, fino a delineare la figura di un uomo tanto talentuoso quanto inabile alla vita sociale. The Beach Boys cerca di smussare gli angoli più taglienti di questa narrazione: vero, Brian Wilson è un genio (come da slogan imposto dal leggendario addetto stampa inglese Derek Taylor negli anni Settanta), ma gli altri Beach Boys sono stati pietre fondamentali del suo progetto, fin da quando Brian, Dennis e Carl cantavano insieme Ivory Tower di Cathy Carr, di notte, chiusi nella loro stanza. Brian intonava le prime note, poi i due fratelli si univano a lui. Anni dopo, seguendo lo stesso schema, quei tre bambini cresciuti avrebbero registrato In my room, ballata che arrivava al terzo album in studio, quando i Beach Boys erano re incontrastati della surf music, e del sogno californiano – eppure quella canzone non parlava né di spiagge, né di ragazze. Piuttosto, del desiderio di trovare un rifugio. Forse, anche da un padre violento psicologicamente e fisicamente.
The Beach Boys non nasconde la verità su Murry Wilson, uomo e padre – ormai è una verità storica assodata –capace di punizioni corporali che andavano ben oltre i metodi educativi diffusi negli anni Cinquanta e Sessanta, già di per sé non esattamente gentili. Nel documentario i fratelli Wilson ormai adulti scherzano amaramente sulle botte ricevute e sul fatto che Murry amasse usare bastoni di dimensioni diverse, uno per ogni fratello. Ma i registi non sembrano voler calcare la mano, e non fanno riferimento ad alcuno degli episodi non confermati di violenza, di cui si è nutrita negli anni la leggenda – se così di può dire – di Murry Wilson, diventato perfino protagonista (negativo) di un cartone animato ideato da uno dei più noti fumettisti underground d’America, Peter Bagge. L’unica accusa da cui Murry è stato scagionato nel corso degli anni è quella di aver provocato la parziale sordità di Brian, a causa di un colpo sferrato al figlio quando aveva solo due anni. È stato lo stesso Brian infatti a raccontare che la colpa è di un ragazzino del quartiere, che lo aveva colpito in testa con un tubo di piombo, provocandogli un danno permanente all’ottavo nervo cranico.
Ancora una volta, insomma, le cose con i Beach Boys non sono quello che sembrano: la grande armonia esisteva solo sul palco, mentre il genio autodidatta capace di comporre a orecchio incredibili sinfonie pop era mezzo sordo, e non poteva sentire in stereo. Quando Neil Young paragonava Brian Wilson a Beethoven, aveva effettivamente più di una ragione per farlo.
L’ultima cosa che fa il documentario The Beach Boys è offrire una panoramica sugli anni oscuri dei Beach Boys, che curiosamente seguono il loro apice artistico: Pet Sounds, oggi considerato uno dei cinque dischi fondamentali della storia del rock, è il primo di una serie di album poco soddisfacenti dal punto di vista commerciale. L’ansia e la depressione hanno la meglio su Brian, che lascia agli altri Beach Boys il compito di esibirsi sui palchi di mezzo mondo e si ritira in studio, in casa, e nell’abuso di sostanze – soprattutto stimolanti, secondo i suoi stessi racconti. Dennis intanto prende in pieno il treno della rivoluzione hippie e diventa uno dei protagonisti della controcultura dell’epoca – in particolar modo della parte che prevedeva tantissimo sesso casuale (pare si fosse soprannominato da solo “The wood”, ehm) e una quantità altrettanto smodata di droghe. Una vita destinata a non essere frenata neppure dall’incontro con la setta di Charles Manson: sarà proprio Dennis a presentare a Manson il produttore dei Byrds Terry Melcher, l’uomo che probabilmente doveva essere la vittima del massacro di Cielo Drive, in cui fu uccisa invece Sharon Tate con altre quattro persone. Nonostante la paura per lo scampato pericolo – e il senso di colpa – Dennis continua negli anni seguenti la sua spirale autodistruttiva, producendo però musica meravigliosa nel frattempo: il suo album solista del 1977 Pacific Ocean Blue è lì a dimostrarlo.
E allora, cosa manca alle due ore di The Beach Boys? Beh, per farla breve, quarant’anni. In fondo, tutte le cose che racconta – e che ho riassunto qui sopra – sono note. Si sarebbe potuto invece approfittare dell’occasione per raccontare quello che è venuto dopo Endless Summer.
Certo, la prima cosa è facilmente intuibile: un fiume di denaro. Ma anche quello avrebbe potuto essere moltissimo di più, se solo Murry Wilson (sempre lui) non avesse venduto i diritti del catalogo dei Beach Boys una volta annusato che le cose stavano andando male: ottenne 700.000 dollari per qualcosa che con il senno di poi valeva sì qualche centinaio, ma di milioni. Il successo di quella compilation finì inoltre per avere un importante ricaduta negativa: cementò lo status dei Beach Boys come gruppo vintage, che certo poteva ancora essere trendy, ma rimaneva inevitabilmente fuori dal tempo.
I successivi flop commerciali e artistici portarono Brian Wilson ancora più in basso, fino all’incontro con il terapeuta Eugene Landy, presso il quale rimase in cura tra la metà dei Settanta e i Novanta. Landy applicava metodi poco ortodossi, e soprattutto finì per prendere il controllo della vita artistica ed economica del suo paziente, fino a ottenere il 25% dei diritti sulle sue canzoni. Ancora una volta, chi avrebbe dovuto proteggere il genio di Brian Wilson finiva per puntare soprattutto ai soldi. Eppure, lo stesso Brian è tuttora convinto che Landy l’abbia, in qualche modo, salvato. La storia è già stata raccontata nel film Love & Mercy con Paul Giamatti, ma sarebbe stata ottimo materiale anche per un documentario.
Brian Wilson oggi è l’unico sopravvissuto della famiglia: Murry Wilson è morto d’infarto nel 1973 (dei figli, solo Carl si presentò al funerale); Dennis sarebbe annegato dieci anni dopo, dopo una giornata passata a bere, nelle acque di Marina del Rey, proprio dietro Venice Beach, uno degli spot storici per il surf a Los Angeles; Carl avrebbe portato avanti la band per i decenni successivi, fino a pagare la sua passione per il fumo con un tumore ai polmoni, che l’ha ucciso via nel 1998.
Nel frattanto Brian è tornato in attività, ha terminato il suo leggendario album incompleto Smile, messo in piedi molti spettacoli live, e persino, che ci si creda o no, cantato sulle navi da crociera (sarebbe interessante capire chi l’ha convinto, e quanto ci ha guadagnato…), prima che gli venisse diagnosticata una forma di demenza senile.
I Beach Boys continuano a girare l’America sotto la direzione di Mike Love.
La loro storia rimane sospesa tra picchi celestiali e abissi oscuri, come la loro musica. God only knows – la canzone che Paul McCartney, tanto per dire, ha definito più volte la sua preferita di sempre, dovesse sceglierne una sola – è stata cantata con le lacrime agli occhi da musicisti di ogni epoca, da Neil Diamond a David Bowie, da Michael Stipe a Taylor Swift. Una canzone che non nasceva da un sentimento religioso, eppure suonava come il paradiso pop. Come sempre, le storie dei Beach Boys non sono quello che sembrano, sono molto di più. E nonostante la passione contemporanea per i riassuntini in streaming, raccontarle in due ore è semplicemente impossibile.
Un viaggio attraverso le storie leggendarie della musica rock con David Bowie, Bruce Springsteen, Alice Cooper, Aerosmith e tanti altri...
Classic Rock 25.06.2023, 14:00
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