Ciuffo ossigenato e occhialoni da sole con montatura bianca e spessa, la cravatta nera e stretta sulla candida camicia come voleva l’estetica del tempo: così si presentava Enrico Ruggeri ai tempi dei Decibel, quando cantava pezzi come Contessa e Pernod, entrati dritti sparati fra i classici della new wave italiana. Oggi è un uomo e un artista d’esperienza, la cui carriera abbraccia cinque decenni, in cui ha scritto canzoni per sé e per gli altri (soprattutto le altre: Mannoia, Bertè, Oxa). Fra Decibel e dischi solisti gli album sono quaranta, che rappresentano altrettante esistenze nel titolo del suo ultimo libro 40 vite (senza fermarmi mai), uscito lo scorso anno. Il racconto della gestazione di quegli album, retroscena vissuti in un’Italia che stava cambiando.
L’ultimo della serie è stato pubblicato in doppio vinile lo scorso mese e ha un titolo che richiama esplicitamente la filosofia greca: La caverna di Platone. «Platone ipotizzava delle persone nate e tenute chiuse in una caverna, che avevano un solo contatto con la realtà: delle immagini proiettate dal buco della caverna verso l’alto» spiega il musicista milanese, ospite di Natascia Bandecchi a Tra le righe (Rete Uno), «E immaginava che queste persone, talmente assuefatte a quel tipo di stimoli, una volta portate fuori si sentivano a disagio e quindi chiedevano di poter tornare dentro». Qualsiasi riferimento al mondo di oggi è da ritenersi puramente voluto perché, nota Ruggeri, «spesso crediamo a una realtà che ci viene raccontata, invece che andare a toccare con mano il mondo».
Chiamato a esprimersi su come veicolare la cultura oggi, Rouge non ha dubbi: «La grande sfida è rendere la cultura piacevole, appassionante e divertente. È quello che cerco di fare con le trasmissioni [ha appena finito di condurre Gli occhi del musicista sulla tv italiana, ndr], coi dischi, coi libri, con tutti i modi che ho per raccontare cose agli altri. Il pericolo è quando un ragazzino sente la parola cultura e dice “Mamma mia, mi annoierò”. Quindi la grande sfida è quella: stimolare le persone a fare, ascoltare, vedere cose divertenti che però abbiano dei contenuti». E cita un esempio dalla sua vita familiare: «Mia figlia sta studiando l’Iliade. Le ho raccontato a modo mio l’Iliade e si è appassionata come se le stessi raccontando un film di avventura. È chiaro che se studi pedissequamente i versi di Omero, magari ti annoi. Se invece qualcuno ti dice che c’è dietro una storia di grande umanità, di grande azione, ti diverti».
Si capisce che guarda già alle vite 41, 42 e oltre, che le sette note lo ricaricano «perché la musica contiene la sua ricompensa, quindi è sempre piacevole farla». A dargli quella motivazione in più contribuisce un legame sincero con il suo pubblico, verso il quale nutre un sentimento di stima: «Quando cominci a fare questo mestiere dici “Mah, speriamo di durare”, di fare tre, quattro o cinque dischi. Quando i dischi sono quaranta vuol dire che hai stabilito un rapporto di grande affetto con delle persone che sono cresciute con te».