La morte avvolse Fabrizio De André l’11 gennaio del 1999 e da allora, da 25 anni lo immagino riposare in” Via del campo”, “sulla collina”, coi bambini “nel letto del Sand Creek”, “in un campo di grano” ma anche tra le macerie di Sidone o tra i mirti dell’amata Gallura. E il suo spirito vibrare ovunque vi siano soprusi e abusi di potere e minoranze in difficoltà o sopraffatte: dai Sardi, per lui allora simbolo odierno dei popoli autoctoni emarginati ai Nativi americani, i sopraffatti di ieri, dai Rom ai transessuali. E con la sua voce calda e avvolgente sostenere quelle donne che con pervicacia, dignità e sacrifici procedono in direzione ostinata e contraria, pagando sempre pegno: Bocca di Rosa, Marinella, Teresa, Nina, Sally fino alla Madonna dell’Ave Maria. E perché no, rivolgere un dolce sguardo carico di “pietas” a chi crepa in guerra o chi si suicida in carcere, tutti i Piero e i Miché per intenderci.
E non credo di esser l’unico ad immaginarlo così. In questi lustri in Italia gli hanno dedicato scuole, piazze, vie, circoli anarchici. Senza scordare la girandola di pubblicazioni editoriali e discografiche, di film, documentari e sceneggiati televisivi. Impossibile scordarlo grazie anche al lavoro profuso dalla Fondazione che reca il suo nome.
E sono mille papaveri rossi…
Voi che sapete... 09.01.2024, 10:00
Contenuto audio
Faber ha attraversato col fulgore di una cometa il secondo ’900, anche lui in direzione ostinata e contraria e con una coerenza granitica a dir poco esemplare. La sua parabola artistica e umana è ben nota: studia sui “sacri testi” al pari dei sodali della “Scuola genovese” gli chansonnier francesi con una predilezione per Brassens, il principale modello a cui guardò l’esordiente Fabrizio. Successivamente Dylan e Leonard Cohen, autori di cui incide splendide versioni: tra le più celebri “Il gorilla, “Suzanne” e “Avventura a Durango”. Nella sua prima produzione manifesta ampie conoscenze letterarie e culturali regalando alcuni capolavori assoluti, canzoni in odore di leggenda e patrimonio popolare comune; ed è pleonastico citarle.
Ma rileggendo l’antologia di “Spoon River” raggiunge vette sublimi di puro lirismo, senza scordar l’apporto di Nicola Piovani, coautore delle musiche e futuro premio Oscar. Ma al netto degli autori che lo ispirano, al netto di una pregevole abilità narrativa, generosa di riferimenti letterari e storici, al sapiente utilizzo della rima e delle metafore è già evidente quel “filo rosso” che annoderà tutta la sua opera. Certo che Faber era anche uno straordinario cantore di sentimenti ma gli emarginati, gli sconfitti, i deboli, le vittime innocenti del potere – “che non è mai buono, mai!” - trovano diritto di cittadinanza nella sua poetica. E il suo canzoniere diviene l’epica di questa vasta umanità sottomessa. Anche nella seconda fase della sua produzione, quella che prende avvio nel ’73 con “Storia di un impiegato”, album fondamentale e che si nutre della tensione del maggio del ’68, il focus è meglio calibrato. Non c’è potere positivo, il potere, qualsiasi potere è sempre nocivo, impedisce all’uomo di librarsi libero. Il potere tarpa le ali all’individuo.
Fabrizio De André
Ed è una sorta di mantra per l’artista ligure. Un concetto che replica anche nei due album successivi: “Volume VIII” e “Rimini”. Il primo scritto in collaborazione con Francesco De Gregori, una collaborazione assai importante per Faber, che giunge alla riflessione che per cui l’unica ribellione al conformismo dilagate è una ribellione individuale. Il secondo, ricco anch’esso di riferimenti sociopolitici e ricordi autobiografici, eleva la cittadina romagnola quale simbolo della piccola borghesia che ormai felice e sazia dello status sociale conquistato si adagia su posizioni reazionarie. Ed è un album che segna la collaborazione col giovane Massimo Bubola. Un sodalizio che si manifesta compiutamente nell’Indiano, che scrive dopo esser il rapimento avvenuto nell’agosto del ’79, ed è un evento imprescindibile. Coi rapitori Faber cerca un dialogo, cerca una vicinanza anche emotiva scrivendo ad esempio: “se non sono gigli/son pure figli/vittime di questo mondo”.
I 4 mesi trascorsi all’”Hotel Supramonte” sono davvero significativi. I Sardi sono i nativi americani di un tempo, le vittime della storia scritta dal potere che stimola il genocidio di chi è difficilmente omologabile. E come non commuoversi al cospetto del “Fiume Sand Creek”? De André raccontata una carneficina con un pudore, una sensibilità e una poesia rara e commovente. Una pulizia etnica che avremmo conosciuto ancora negli anni a venire e che suggerisce che Fabrizio De André, a pari di altri grandi artisti e intellettuali sia nato nel futuro. Quello in cui - come ben sottolinea Andrea Podestà nel libro “In direzione ostinata e contraria” - è urgente navigare attorno all’uomo per fare i conti con le proprie radici, con la propria storia, personale e collettiva per conoscere e capire l’altro. E questo Faber lo fa nell’epoca del riflusso, dell’individualismo sfrenato, dei valori effimeri, dell’ammorbamento delle coscienze.
Se con “L’indiano”, oltre alla contrapposizione natura-cultura, Faber inizia a far di conto con la Sardegna e una parte di sé stesso, la ricerca dell’uomo non può che condurlo alle sue origini, a Genova; metafora del Mediterraneo e delle civiltà che in quel mare si bagnano. Con l’immenso Mauro Pagani compone l’ennesimo capolavoro: “Creuza de ma”, il bisogno ancestrale del viaggio per mare (anche Faber è comunque figlio di Colombo) delle genti che so affacciano sul Mare Nostrum. Un album di cui si è scritto e tanto: dall’ alchimia musicale abbacinante all’ impiego di una lingua, il genovese, tutt’altro che ortodosso e spesso arcaico. Una “lingua della memoria” che assurge a lingua franca, di confine comprensibile dai Turchi, Libanesi, e le popolazioni nordafricane. Un disco, “Creuza de ma” che festeggia quest’anno il 40.esimo anniversario! A cui segue, sei anni più tardi, all’ennesimo capolavoro sempre figlio del sodalizio De André-Pagani: “Le Nuvole”, grazie al quale proseguire la circumnavigazione attorno all’uomo, alla verità dell’esistenza. La Terra prima, il Mare poi, il Cielo ora.
Album in cui Faber torna a sviscerare temi a lui cari: le arroganti e subdole storture del potere e le preoccupazioni e difficoltà di chi questo potere lo subisce “sotto le nuvole”, la rappresentazione del potere forte che mistifica e oscura la verità. È il disco più politico, di alta politica di Fabrizio De André che verifica lo stato della società italiana dopo la Caduta del Muro e la dissoluzione del PCI. E ciò che osserva non è quel paradiso in terra che si ventilava. E la straordinaria “La domenica delle salme” la canzone più potente per la ricchezza del linguaggio, le metafore, i significati, le citazioni è quella che meglio riassume la sua poetica e la sua etica. Una canzone che merita un trattato a parte per ciò che osserva e analizza. Uno scenario apocalittico, un cumulo di macerie sul quale celebrare le esequie del “defunto ideale” e del “cadavere di Utopia”; un funerale in cui tutti o quasi sono colpevoli o coinvolti.
Sei anni ancora e il viaggio prosegue; sei anni in cui le vendite de “Le nuvole” raggiungono cifre impressionanti, ancor più importanti di “Creuza de ma”. Il vascello De André approda all’ultimo lavoro discografico: “Anime Salve”. Un vero inno alla libertà e, al contempo, alla solitudine contro l’oppressione della “maggioranza”. Ed è “Una solitudine che aiuta a conoscersi e capirsi, proprio per potersi aprire al contatto con altre solitudini” afferma il bardo genovese. Album che registra la collaborazione con Ivano Fossati; album musicalmente ricco, che prosegue nella traiettoria tracciata anni prima con Mauro Pagani. Per molti è la summa della sua poetica e carriera, per altri una sorta di testamento spirituale e di approdo definitivo.
E per chi ha avuto la fortuna di godersi i concerti del tour dedicato all’album, o semplicemente ha consumato la registrazione del concerto registrato al Brancaccio di Roma nel 1998 (Faber è coadiuvato da una formazione a dir poco in stato di grazia) ricorderà ciò che raccontava nell’argomentare le canzoni: “È un disco che ha come tema fondamentale quello della solitudine, una solitudine che deriva da emarginazione, il più delle volte […] Bene, detto così sembrerebbe che il disco si rivolga soltanto alle minoranze emarginate, ma credo che questo sia riduttivo: io penso che proprio queste persone, o questi gruppi di persone, difendendo il loro diritto ad assomigliare a se stessi, difendono soprattutto la loro libertà, quindi penso che Anime salve sia soprattutto un disco sulla libertà”.
Un ultimo disco, il tredicesimo in studio che si conclude con “Smisurata preghiera”. Canzone mutuata dal libro di poesie “Summa di Maqroll il gabbiere. Antologia poetica 1948-1988” di Alvaro Mutis che è un’invocazione, una preghiera considerata non solo la summa dell’intero album ma del suo pensiero: il suo “messaggio definitivo” che ribadisce, una volta ancor, l’attualità e l’urgenza del suo lucido e spesso visionario pensiero.
Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
Col suo marchio speciale di speciale disperazione
E tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
Per consegnare alla morte una goccia di splendore
Di umanità, di verità
Ancora oggi, e sempre di più anche a fronte della povertà in cui versa la musica italiana di consumo, vittima di un analfabetismo musicale, letterario, sentimentale ed emotivo davvero preoccupante, e affrancata, dalla vita sociale, culturale e politica di riferimento.
“Ed è ancora un affresco sulle minoranze, sulla necessità di difendersi da parte di chi non accetta “le leggi del branco”, su coloro insomma che devono pagare per difendere la propria dignità: gli unici che attraversando l’emarginazione e la solitudine riescono ancora a consegnare alla morte una goccia di splendore” (Fabrizio De André)