Confesso che lì per lì, quando lo vidi la prima volta nel video di “Even Flow” dei Pearl Jam, non mi colpì più di tanto. A posteriori, può darsi che all’epoca stessi ancora cercando di capire se il mio rock fosse quello di REM, Cure, U2 e vari gruppi da stadio o quello che stava arrivando dai locali di Seattle, più arruffato e diretto. Poi gli amici, le compagnie, la ricerca di una musica che fosse nostra (cose già dette, peraltro)... E in breve Eddie Vedder diventò uno dei miei beniamini.
Roba di più di trent’anni fa. All’epoca era un simpatico scavezzacollo, nel senso che ai concerti gli piaceva arrampicarsi su impalcature e impianti per poi lasciarsi cadere sul pubblico e scivolare sulle teste dei fan come fossero l’onda del mare. Onda del mare che ricorrerà in queste righe. D’altronde lui è surfista, e proprio dalla terra promessa del surf USA, la California, risalì a nord fino a raggiungere la terra promessa del nuovo rock degli anni Novanta, Seattle. Fu l’ex batterista dei Red Hot Chili Peppers, Jack Irons, a segnalarlo ai Pearl Jam che, freschi di formazione, stavano cercando un cantante. Si erano conosciuti durante un’escursione allo Yosemite. La band inviò una cassetta con le strumentali, ed Eddie gliela rispedì corredata dei suoi cantati. Sappiamo bene come andò a finire. Il benzinaio-surfista di San Diego, voce del gruppo funk-rock Bad Radio, fece i bagagli direzione Stato di Washington. La prima testimonianza su disco del Vedder seattleiano si trova in “Temple of the Dog”, ospite nel brano “Hunger Strike”.
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Nel 1991 erano usciti “Nevermind” dei Nirvana e “Ten” dei Pearl Jam. Le copertine delle riviste inquadrarono la rabbia dei nuovi idoli degli adolescenti: i cantanti grunge, con il loro carico di problemi personali e fragilità, che riversavano nel microfono a suon di urla. Ma anche di gemiti e mugolii. Le radio rivalutarono il rock fatto con la chitarra elettrica distorta, i giovani si precipitarono nei negozi di abbigliamento di seconda mano per rifarsi il guardaroba e le camicie a scacchi diventarono un capo alla moda. Io, nel frattempo, cercavo di farmi crescere la criniera come quegli anti-divi sfidando la mia conformazione tricologica, che porta il capello a piegarsi verso l’interno. Nella migliore delle versioni, finii per somigliare a uno dei Beatles, nella peggiore - e più veritiera - a Paggio Fernando. Li tagliai praticamente subito.
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Tempo neanche tre anni, e tutto per Seattle era già cambiato. Cobain aveva salutato la compagnia nella maniera che sappiamo, e nuove tendenze musicali si stavano affacciando. I Pearl Jam lo capirono, e proprio quell’anno, con “Vitalogy”, si incamminarono lungo i sentieri di un rock sempre più adulto, lo stesso che stanno proponendo nei loro ultimi dischi. Le nostre strade si separarono, e credo che Vedder e i Pearl Jam se ne fecero una ragione. La mia condusse verso dimensioni più elettroniche, qualcosina di lounge, colonne sonore di film, trip hop e miscugli vari. I PJ continuarono a macinare rock nelle arene che li ospitavano.
Ci siamo ritrovati dopo un decennio, quando una nuova maturità subì il richiamo del vibrato di EdVed. Che riaffiora in tutto il suo calore nella colonna sonora di “Into the Wild”. Non tanto in “Hard Sun” (che manco è sua); lo ritrovo, piuttosto, in pezzi come “Rise”. Lì mi sembra di sentire tracce di “Release”, reminiscenze di “Elderly Woman”, condite con il minimalismo dell’ukulele. La “chitarrina” hawaiana sarà un po’ croce e delizia dell’Eddie solista: bene finché crea intimità, forse un po’ meno quando ci fai un disco intero (“Ukulele Songs”), ché dopo un po’ le orecchie reclamano varietà.
La sua venerazione per gli U2 era nota da inizio carriera; negli ultimi anni l’ho visto duettare con Beyoncé e Chris Martin dei Coldplay, intonare con la figlia un pezzo di Taylor Swift (cuore di papà!). Sempre a proposito di Swift, qualche tempo fa ha paragonato l’atmosfera che si respira ai suoi live a quella dei concerti punk frequentati da ragazzo. Avrà le sue ragioni per sostenerlo, io però un po’ basito lo sono rimasto. Forse è stato solo per fare il giovane, o forse ho voluto credere alla storiella che un altro rock, in opposizione a quello delle star, era davvero possibile. Forse una volta ci credeva pure lui. O forse questa sua convinzione la mette in pratica più nelle cause per cui si batte (come questa) che nella musica prodotta.
Della dorata generazione di cantanti grunge - ugole potenti e faccini telegenici - EV è l’unico sopravvissuto. Oltre a Cobain, ci hanno lasciato Staley, Weiland, Cornell e Lanegan. Anche lui ha rischiato di non spegnere le sessanta candeline, però a causa di un incidente in mare. Oggi tengo a portata di mano il suo senso dell’equilibrio: precario quando si issava sugli amplificatori, più solido oggi, che, ancorché abbia raggiunto l’età in cui la maggior parte dei suoi coetanei inizia a fare i calcoli per la pensione, continua a salire sul palco con immutata, leonina grinta.
Negli ultimi anni il suo vocione ruggente lo ha lasciato a piedi e gli acciacchi stanno togliendo smalto a lui e alla band. Ma proprio quel vocione, sferzante come l’onda del mare e caldo come un giacchettino da indossare quando le sere si fanno più fresche, resta qualcosa di cui ogni tanto sento ancora il bisogno. Da qui il titolo del pezzo. Tieni duro, Eddie.
60 anni Eddie Vedder
Il mattino di Rete Tre 23.12.2024, 07:30
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