Qualche mese fa ho rivisto un amico di famiglia, ottantenne. Erano un paio d’anni che non ci incontravamo. Dopo avermi salutato, mi ha detto: «Ma questi li hai sempre avuti?». Si riferiva ai due grandi tatuaggi che ho sul braccio sinistro. «No, sono abbastanza nuovi.» «Ah. Non mi piacciono le donne tatuate. Trovo che non siano per niente femminili.»
Questo episodio me ne ha fatto ricordare un altro: tempo fa ho pubblicato una foto su Instagram in cui avevo un aspetto un po’ diverso dal solito: ero truccata in modo vistoso, con un rossetto viola scuro. Una persona che mi segue ma non conosco mi ha scritto in privato. Mi ha detto: “Ti preferisco senza trucco, acqua e sapone”.
Ho scritto “persona che mi segue”, ma era un uomo. A giudicare dalla foto del profilo, di un’età tale per cui potrebbe essere mio padre.
Il fatto è che di episodi come questi me ne sono successi a decine, se non centinaia, nei miei 41 anni di vita. I protagonisti, ora, sono principalmente uomini, e spesso più grandi di me, ma quando ero più giovane, adolescente, questo genere di commenti sul mio aspetto fisico venivano fatti soprattutto da donne, spesso di famiglia: «Se ti tingi i capelli ti cadranno (e sporcherai i cuscini per settimane)»; «Le ragazze serie non si truccano», ma anche «Diségnati le sopracciglia, altrimenti sembri un’aliena»; «Fai ginnastica sennò ti si ingrossano le caviglie»; «Le minigonne puoi usarle al massimo fino a trent’anni»; «Con un tatuaggio ti rovini per sempre»... Potrei continuare a lungo, e con “consigli” anche molto creativi: la fantasia non ci è mai mancata, in casa.
Sono ragionevolmente convinta che se chiedessi a una donna se ha mai ricevuto giudizi sul suo aspetto fisico, sulle sue scelte estetiche, sul suo modo di vestire, la stragrande maggioranza di loro mi direbbe di sì. Se non la totalità.
Tra queste c’è Carolina Capria, che racconta: «Da ragazzina mi ripetevano spesso che non dovevo rovinare i miei capelli, così come non dovevo rovinare il mio corpo con tatuaggi e piercing. ‘Rovinare’ era la parola che le persone a me care pronunciavano più spesso, e in effetti rende bene l’idea dell’oggetto, di quel corpo di cui sono la guardiana e non la proprietaria. Secondo loro, e chiaramente secondo la maggior parte della società, la mia priorità incontestabile era di preservare l’aspetto piacevole del mio corpo» (Campo di battaglia. Le lotte dei corpi femminili, effequ, 2022). E continua: «Ben presto ho capito che se avessi voluto scansare giudizio e biasimo avrei dovuto seguire delle regole non scritte ma stringenti, abdicando alla libertà di disporre del mio corpo, con rinunce più o meno consistenti. Regole che tutte conoscevamo senza che nessuno ce le avesse mai veramente esposte, perché le avevamo apprese osservando il disprezzo che si riversava su chi non le seguiva o se ne discostava. Regole che riguardano il nostro aspetto, il nostro corpo e la nostra libertà».
«“Devi tenere a mente che la Dottrina esiste” mi ha detto. “Ricorda: non riguarda il tuo aspetto, o quanto sei Bella. Quella è la Grande Bugia. Riguarda…” “… Il comportamento”. Ho annuito. “Sì, lo so. Lo so”. “Davvero? Perché sembra che te ne sia dimenticata. Le Regole definiscono il comportamento, non la Bellezza. Il risultato finale non è un Bellissimo Viso, ma delle ragazze accondiscendenti. Ragazze indebolite”»: dai tacchi che non permettono di correre, da abiti stretti e succinti che non permettono di muoversi liberamente, da interventi di chirurgia estetica che non permettono di mostrare emozioni. Nel romanzo Saresti così bella, Holly Bourne racconta una realtà che stiamo già vivendo, ma il linguaggio distopico che sceglie ci aiuta a percepire meglio l’incredibile e angosciante surrealtà della situazione (Camelozampa, 2024).
Un incubo che è stato messo in luce per la prima volta con lucidità da Naomi Wolf, nell’ormai classico saggio Il mito della bellezza (Tlon, 2022): «Le qualità che un certo periodo definisce come tratti di bellezza nelle donne sono solamente dei simboli del comportamento femminile che quel periodo considera desiderabili: in realtà il mito della bellezza prescrive sempre dei comportamenti più che un aspetto esteriore». E ancora: «Il fatto di assegnare valore alle donne in una gerarchia verticale basata su criteri fisici imposti culturalmente, è espressione di rapporti di potere in cui le donne devono competere in maniera innaturale per appropriarsi di risorse di cui gli uomini si sono impadroniti».
Fa impressione ricordare che la prima edizione di questo saggio risale al 1990, perché è ancora attuale in modo inquietante. In realtà la riflessione sulla bellezza e sull’influenza dello sguardo maschile sull’estetica considerata “femminile” risale a ben prima. Per esempio, la critica cinematografica Laura Mulvey ha coniato l’espressione “male gaze” nel 1975 (in Visual Pleasure and Narrative Cinema, in «Screen», vol. 16, 1975), per definire come le donne siano sempre state rappresentate nei media secondo canoni estetici finalizzati a soddisfare un pubblico maschile. «Nel corso dei secoli la narrazione di bellezza e sensualità è stata saldamente ed esclusivamente in mano agli uomini che attraverso l’arte, la letteratura, il cinema, la televisione hanno fatto sì che il proprio sguardo diventasse lo sguardo della società», spiega Capria (Campo di battaglia).
Tutto questo spiega il perché le donne della mia famiglia si sono sempre sentite in dovere di indicarmi la “giusta via”: perché non avessi problemi in società; per darmi più possibilità di venire percepita come una persona di valore e degna di rispetto; per darmi le migliori chance di successo personale e professionale. Anche loro sono vissute e cresciute in questa società, assorbendone valori e regole implicite.
E tutto questo spiega anche perché uomini, spesso sconosciuti o comunque che non fanno parte della mia quotidianità, si sentono in diritto di fare commenti sul mio corpo, non sollecitati e soprattutto non desiderati. Li fanno semplicemente perché possono farli. Hanno il potere di farli. Perché pensano che la bellezza sia un valore condiviso, e quindi anche per me sia importante. E perché pensano che la loro opinione abbia un valore per me, perché sono abituati al fatto che storicamente e tradizionalmente la loro opinione ha un valore per molte persone. Non è colpa loro: è la società in cui viviamo che li ha indotti a pensare che sia così, perché “si è sempre fatto così”. Ma è loro responsabilità capire che il corpo femminile non esiste in funzione dello sguardo maschile, per soddisfarlo e compiacerlo. Che le cose stanno cambiando. Ed è responsabilità di tutta la società fare in modo che le cose cambino, per davvero.
Maschilismo di ritorno o mai sopito veramente?
Millevoci 11.08.2017, 11:05
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