Il 24 maggio 2023, un segnale radio lanciato da forme di vita intelligenti proveniente da Marte viene rilevato dai più importanti radiotelescopi della Terra. Inequivocabile, chiaro, affascinante, ma non sorprendente. Nessuno è balzato dalla sedia e i telegiornali non hanno annunciato uno straordinario contatto con creature extraterrestri. Si trattava infatti di una performance artistica di Daniela De Paulis, che assieme ad una squadra interdisciplinare ha codificato un segnale radio volto a simulare in modo più rigoroso possibile quanto si può pensare di ricevere da altre civiltà, cercando di togliere ogni traccia di umanità al messaggio. La trasmissione del segnale dall’orbita marziana alla Terra è stata affidata a un satellite in missione attorno al Pianeta Rosso e dopo la sua ricezione, della quale i radio osservatori erano stati preavvisati per evitare falsi allarmi, migliaia di appassionati si sono ingegnati per riuscire a decodificare il messaggio creando persino una community online dedicata. Dopo un anno di tentativi, a giugno 2024 due utenti della community hanno annunciato di essere riusciti a decifrare il messaggio, che conteneva la struttura chimica di quattro amminoacidi.
Segnali dallo spazio
Il giardino di Albert 10.06.2023, 18:00
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“Amminoacido” è proprio una delle parole chiave dell’astrobiologia, la disciplina che indaga il cosmo cercando di capire l’origine, lo sviluppo e il futuro della vita terrestre e non. Infatti, gli amminoacidi sono delle piccole molecole formate principalmente da azoto, carbonio e idrogeno che, come “mattoncini Lego”, costituiscono le proteine, uno dei tasselli fondamentali della vita terrestre. Proprio per questo, uno degli obiettivi primari degli astrobiologi è seguire le tracce degli amminoacidi su corpi celesti di qualunque tipo sperando di trovare piccole tracce di vita. Naturalmente, il problema è estremamente ampio, perché anche se la vita che conosciamo noi è basata su combinazioni più o meno lunghe di venti tipi diversi di amminoacidi, nulla impedisce, in linea di principio, che su un altro pianeta la vita si sia sviluppata utilizzandone altri non presenti naturalmente da noi o persino meccanismi biochimici completamente diversi.
Ad oggi, benché non siano stati trovati veri e propri segni di vita, le ricerche stanno dando ottimi risultati, con l’individuazione su Marte di piccole molecole organiche contenenti carbonio. Sebbene non siano segni diretti di vita, queste molecole sono simili a quelle presenti nel brodo primordiale terrestre, che, secondo le teorie più accreditate, hanno dato origine agli amminoacidi e quindi alla vita. Nel 2021, la missione giapponese Hayabusa 2 ha riscontrato la presenza di numerosi amminoacidi nei campioni estratti direttamente dall’asteroide Ryugu e riportati sulla Terra incontaminati. Mentre lo scorso anno il telescopio spaziale Spitzer ha trovato grandi quantità di triptofano, un amminoacido, nella Nube di Perseo, a mille anni luce da noi.
Per quanto queste osservazioni lascino ben sperare, per poter trovare minuscole tracce di vita nell’intero universo, o quantomeno nel nostro sistema solare, è imperativo limitare l’area di ricerca. Decenni di esplorazione spaziale hanno permesso di individuare tra i corpi celesti vicini a noi quelli più adatti ad ospitare delle forme di vita. Esclusa la nostra Luna, che non ha acqua liquida, nel Sistema Solare i potenziali candidati includono la luna più grande di Nettuno Tritone, poi il piccolo pianeta nano Ceres, il pianeta Venere, i satelliti di Saturno Enceladus e Titano, le lune di Giove Io, Calisto, Ganimede ed Europa, che sotto un guscio di ghiaccio quasi 20 chilometri possiede degli oceani di acqua liquida, e poi, naturalmente, Marte. Oggi ci sono buone indicazioni che sul Pianeta Rosso, un tempo ricco di oceani, possano esserci riserve d’acqua nel sottosuolo che teoricamente consentono condizioni simili ad alcuni ambienti terrestri estremi nei quali sono stati trovati i batteri.
La ricerca della vita extraterrestre, infatti, incomincia proprio qui, sul nostro pianeta. Mentre alcuni ricercatori scandagliano lo spazio vicino e lontano per trovare condizioni ideali e, auspicabilmente, qualche traccia di organismo vivente, molti altri si occupano di osservare le creature che, sulla Terra, vivono in condizioni estreme, relativamente più simili a quelle che si possono trovare sugli altri pianeti. Ambienti freddi, caldi, bui, senza ossigeno o ricchi di sostanze tossiche per l’uomo: se alcune forme di vita, principalmente batteri, ce l’hanno fatta sulla Terra, allora non si può escludere che organismi simili ce la possano fare anche su altri corpi celesti. Ad esempio, gli scienziati hanno studiato i batteri che vivono a Chernobyl (Ucraina) per capire come riescano a proliferare in presenza di importanti radiazioni, o quelli presenti nell’acqua bollente delle sorgenti di Yellowstone (Stati Uniti) e sotto i ghiacci del circolo polare artico per comprendere i meccanismi di sviluppo a temperature estreme.
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Proprio per la loro somiglianza con gli ambienti di altri corpi celesti, alcuni luoghi inospitali terrestri sono anche il contesto ideale per testare gli strumenti che vengono inviati in missione. Così, durante le lunghe e delicate fasi di sviluppo, i nuovi dispositivi che verranno inviati su, ad esempio, Marte, come il Sign of Life Detector SOLID dello Spanish Astrobiology Center, vengono testati in fiumi acidi quali il Rio Tino in Spagna, nei deserti ghiacciati dell’Antartide e nel luogo terrestre più simile al Pianeta Rosso, il deserto di Acatama, in Cile. L’astrobiologia, quindi, è prima di tutto interdisciplinarità, con migliaia di biologi, geologi, ingegneri e astrofisici lavorano fianco a fianco per sperare di trovare, un giorno, un minuscolo organismo da qualche parte nell’universo.