È comunemente dato per scontato che Antigone, celebre protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle (497-406 a. C.), sia dalla parte del bene. Le numerose riscritture del testo, a cui, si ricorda, George Steiner dedicò quel classico che è Le Antigoni, da Anouilh, a Brecht, a Cocteau sembrano avvallare perennemente quest’ipotesi. Va da sé che anche dal punto di vista degli allestimenti l’assioma si ripeta. Basti pensare al relativamente recente La notte di Antigone (2019) della compagnia Eco di fondo, nel quale il racconto viaggia di pari passo al resoconto del caso Cucchi, alla bellissima versione che Yuyachkani – storico gruppo del teatro peruviano – portò in scena nel 2000 nell’interpretazione di Teresa Ralli o a quella a firma del Living Theatre del 1967.
Si tratta solo di tre esempi colti dal mazzo e che ciò avvenga è, in fondo, naturale: nei secoli la figura dell’eroina di Tebe è assurta a mito attraverso un’idealizzazione che è andata consolidandosi graniticamente. Di rimando, l’altro personaggio centrale del dramma, il sovrano Creonte, è stato confinato all’unanimità sul podio del tiranno perfetto, di colui che ignora le leggi non scritte in nome della rigidità di governo. Tale lettura è non solo legittima ma comprensibile, poiché il bisogno di flessibilità dei codici dovrebbe essere parte fondante del nostro vivere comunitario. Ma questa visione totalizzante e, forse, anche un po’ scontata non potrebbe nascondere altro?
A mettere il dito nella piaga nel ‘900 ci pensò Jacques Lacan, il quale nel suo Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi dedicò una parte sostanziale alla figlia di Edipo e Giocasta. Scandagliando la tragedia Lacan mise in evidenza che Antigone non puntava a sancire una legge più giusta, quanto a congiungersi con un luogo in cui fosse possibile interrogare l’arcano della propria defunta progenie incestuosa. È in nome di questa spinta che la ragazza sacrificava tutto, a cominciare da ciò che è sociale – come essere un giorno donna, moglie e madre – attraverso il deciso rifiuto della dialettica.
Eva Cantarella, Contro Antigone, Einaudi, 2024
Oggi, a oltre sessant’anni dalle parole di Lacan, è la storica del Diritto greco e romano Eva Cantarella a tornare sull’argomento con la pubblicazione di un breve volume significativamente intitolato Contro Antigone o dell’egoismo sociale (Einaudi, 2024). Nell’investigare le fonti la studiosa articola la sua riflessione attorno a un quesito portante: «è opportuno identificare l’Antigone del mito», cioè quello che fa da bandiera ai numerosissimi fenomeni culturali che nella fanciulla vedono l’emblema dei più nobili scopi, «con il personaggio al quale Sofocle ha dedicato l’omonima tragedia?».
Come tutti sanno, la storia che precede il dramma è quella che vede Eteocle e Polinice, entrambi fratelli di Antigone, darsi vicendevolmente la morte nella lotta per il controllo di Tebe. Dalla dipartita di Edipo, è Creonte, fratello della defunta regina Giocasta, ad assumere il ruolo di sovrano e a decretare che Polinice, considerato un traditore perché fuggito con l’intento di raccogliere truppe ad Argo al fine di riconquistare la città, non è degno di sepoltura. Tornata da Colono, dove ha accompagnato il padre alla morte, Antigone si oppone e vìola il decreto gettando un pugno di terra sulla salma del fratello. Dal suo gesto scaturisce quindi un aperto scontro con Creonte, che porterà i due protagonisti a contrapporsi fino ai tragici esiti del dramma.
Ora, è risaputo che la sepoltura è l’atto di civiltà per eccellenza. Il ‘900, con le sue fabbriche dei morti, ci ha ben indicato quanto rifiutarla rappresenti un deciso passo nell’inumano, nel vuoto di senso e nel suicidio etico. Ciò nonostante, nell’affrontare il contesto storico del testo Eva Cantarella mette in evidenza un aspetto di grande importanza per la Grecia antica: e cioè che nello stato di guerra permanente fra città che la caratterizzava, lo sfregio del cadavere nemico aveva la stessa importanza (o quasi) dell’inumazione dei morti.
Un esempio lo si trova nell’Iliade, dove Achille non si accontenta di uccidere Ettore e ne trascina il corpo per tre volte intorno alla tomba di Patroclo. Naturalmente ai nostri occhi tutto ciò appare barbaro, ma «dal punto di vista sociale, era positivamente valutato» poiché era su doveri simili che si fondava una cultura di convivenza priva di «un potere sovraordinato». Tornando ad Antigone vediamo allora che nel porre il proprio veto ai riti funebri del nipote, Creonte non compie quello che oggi considereremmo un crudele accanimento, ma si attiene semplicemente a una legge non scritta, alla quale ogni nemico è sottoposto.
Antigone di fronte a Creonte
Ma veniamo ad Antigone in persona, la cui complessità di carattere è schiacciata dal peso di una narrazione dominante. Passando al setaccio il testo Eva Cantarella non può fare a meno di far notare come il suo personaggio si discosti considerevolmente da quello del mito: sin dal suo apparire sulla scena, l’eroina per la quale i legami familiari sarebbero i più sacri si tradisce nel suo rapporto con Ismene, sorella da lei considerata vile perché, con l’uso della ragione, cerca di distoglierla da un progetto che non può che essere suicida. La risposta di Antigone alle sue preghiere è chiara: «Io lo seppellirò, e per me sarà bello fare questo, e morire. Amata giacerò insieme a lui che io amo, avendo commesso un santo crimine» (parole, queste, che non possono non richiamare a quanto accennato riguardo al commento di Jacques Lacan).
Ismene è, con Antigone, l’unica superstite della stirpe di Edipo. Antigone non ha altri che lei, eppure il suo atteggiamento nei suoi confronti è sprezzante, gelido e crudele. Alla sua parola è preferibile il richiamo dei morti, che Antigone privilegia decisamente più dei vivi. Lo dimostra bene anche il suo rapporto col fidanzato Emone – il figlio di Creonte – che per lei sembra letteralmente non esistere nonostante si prodighi a salvarla. «Morto il marito ne avrei avuto un altro; e da un altro uomo avrei avuto un figlio, se quello mi fosse mancato: ma ora che mia madre e mio padre sono in fondo all’Ade, non è mai più possibile che mi nasca un fratello» è la sua motivazione a tutto, come se un compagno o il proprio bambino fossero privi di unicità rispetto al marchio dell’origine.
Giorgio de Chirico, Antigone , 1926–1926
E infine c’è Creonte, il grande nemico che per Eva Cantarella è, al contrario, la figura più tragica del testo. Lacerato da conflitti che Antigone ignora, egli non è affatto l’archetipo del despota ma un re che rivolgendosi alla cittadinanza col «discorso della corona» dimostra come proprio a partire dal divieto di seppellire Polinice egli sia equo, che i legami di sangue non privilegeranno i pochi rispetto ai molti e che «chi agisce rettamente nel privato appare giusto anche nella cosa pubblica»: «Creonte è un buon governante», scrive la Cantarella, «al quale riesce veramente difficile ricondurre la fama attribuitagli da una nutrita controinformazione che lo dipinge come un uomo dalle smodate ambizioni» (il suo peccato probabilmente non è la tirannia, quanto credere che la sola legge possa tutto regolare – che il reale, per dirla ancora in termini lacaniani, sia riassorbito nel simbolico senza resti).
A queste considerazioni l’autrice ne aggiunge anche molte altre, senza mai sminuire l’importanza di Antigone quale figura mitica in contrapposizione all’ottusità di un certo modo di intendere il potere, così come le tante sfaccettature che la vicenda implica, ma riportando sempre, attraverso l’approccio filologico, tale mito in seno a una genesi che appare piuttosto lontana dalla fonte di Sofocle e da quel suo meraviglioso, oscuro personaggio che, a ben guardare, pare davvero amare più i morti che i vivi.
Festival Libro di Muralto
SEIDISERA 21.02.2024, 20:37
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