Società

Contro la grassofobia

Volersi liberə

  • 13 febbraio 2023, 10:57
  • 14 settembre 2023, 09:01
Lizzo, 2021
  • Keystone
Di: Emanuela Musto

Per quanto l’industria della dieta sia ancora estremamente redditizia e lucri sulle insicurezze delle persone promuovendo un’omogeneità dei corpi e dei modelli estetici sia femminili che maschili, negli ultimi anni si è formata una “resistenza”. Coscienti o meno stiamo assistendo ad un cambiamento culturale. L’abbiamo visto sui social come Instagram o Facebook, nelle librerie, nelle affermazioni di alcune star di Hollywood o del mondo della musica. Termini come “body positivity”, “liberazione del corpo”, “anti-diet”, “alimentazione intuitiva” si sono fatti sempre più largo fino a diventare mainstream. Questi concetti sono radicati in un movimento iniziato negli anni ’60 chiamato “Fat acceptance” (accettazione del grasso) e portato avanti negli anni ’70 dal collettivo Fat Underground, fondato da femministe grasse e gay.

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  • fatlibarchive.org

Ma per capire la lotta di queste donne e uomini contro le discriminazioni verso i loro corpi e l’impatto che il loro attivismo ha avuto sulla società odierna dobbiamo tornare alle origini: cos’è la grassofobia e perché è un fenomeno così problematico? Con grassofobia si intende il pregiudizio nei confronti delle persone grasse o sovrappeso e può essere proiettato o interiorizzato (sfociando nel terrore di ingrassare). Questo stereotipo negativo è profondamente radicato nella società occidentale e tende a promuovere la diet culture, cioè la convinzione che solo i corpi magri siano sani e belli. La discriminazione verso il sovrappeso può toccare tutti i settori della vita di una persona obesa: la socialità, il lavoro, l’ambito medico e via dicendo.

In sociologia e gender studies la grassofobia è riconducibile a 3 principali fenomeni: razzismo, sessismo, classismo; non si tratta quindi di un fenomeno recente. Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo la grassezza era una delle caratteristiche che distingueva gli esseri “meno civilizzati” da quelli civilizzati. Gli europei si consideravano in cima alla scala gerarchica rispetto ai “Mori” e agli “Ottentotti”, nomignolo attribuito dai coloni olandesi alla popolazione di Capo di Buona Speranza che significherebbe “balbettare” (stottern).

Colonialisti e i cosiddetti “scienziati della razza” come Bernier e Buffon identificarono la popolazione africana come sensuale, incline agli eccessi e priva di autocontrollo, soprattutto riguardo a sesso e cibo. Le curve delle donne africane vennero ritenute eccessive e motivo di esposizione e studio. Un classico esempio è quello di Saartjie Baartman, una schiava sudafricana rinominata la “Venere ottentotta” che venne prima portata a Londra ed esposta nuda in un freak show, per poi essere venduta e ricollocata in Francia dove venne “studiata” dal naturalista George Curvier, diventando il simbolo di sessualità primitiva e inferiorità razziale a livello internazionale. Nel suo libro “Fearing the Black Body: The Racial Origins of Fat Phobia”, Sabrina Strings spiega come nel XIX secolo in America la chiesa protestante invitava i fedeli all’autocontrollo in tutti gli ambiti, compresa l’alimentazione. La grassezza infatti veniva percepita come una prova di immoralità e inettitudine. Proprio per sottolineare la loro superiorità razziale uomini, ma soprattutto donne bianche, erano fortemente invitati a mantenere un certo tipo di linea. Sempre in quegli anni in Inghilterra si diffuse la percezione che i nobili essendo cresciuti con il valore dell’autocontrollo presentavano fisici più snelli a differenza dei “nuovi ricchi” o della classe operaia.
Dalla prima metà del XIX e all’inizio del XX secolo soprattutto nei paesi occidentali si inizia a parlare di prima ondata femminista, caratterizzata dall’attivismo per un’uguaglianza sociale e di genere. Per rispondere all’oggettificazione dei loro corpi le donne di quel periodo iniziano a mostrare fisicità più longilinee e meno prosperose.

Flapper

Ma il vero paradigma “magrezza è uguale salute e bellezza” si osserva con l’avvento delle industrie dietetiche grazie a nuovi studi scientifici sulle diverse tipologie di cibo, all’introduzione della logica dei valori nutrizionali e il conto delle calorie. L’industria tessile influenza ulteriormente questo filone di pensiero; la couture si ridimensiona e produce vestiti che rientrano in una certa taglia per vendere all’ingrosso; dei veri e propri prodotti creati per una cultura, quella americana e non solo, narcisistico-salutista. Le donne che non erano geneticamente predisposte non trovavano offerta o al limite potevano comprare biancheria che simulasse la tipologia di silhouette richiesta.

Nonostante ci sia stato un breve intervallo grazie a figure come Marilyn Monroe e Sofia Loren, con la Seconda Ondata femminista l’immaginario comune torna a vedere immagini di giovani donne bianche e magre che marciano all’unisono. Amy Erdman Farell nel suo libro “Fat Shame : lo stigma del corpo grasso” fornisce una nuova prospettiva in merito “(le femministe) pur sapendo quanto le idee sul peso vengano esercitate proprio contro le donne, volevano evitare le connotazioni di una “volontà debole” e una primitività che la grassezza comportava. Per alcune di loro il corpo magro fu una strategia – e un “desiderio” – per mitigare la discriminazione e l’associazione a uno status inferiore in quanto donne".


Il che ci riporta al punto iniziale: chi sono le donne della Fat Underground e perché se ne parla solo ora? Fat Underground che ha agito da catalizzatore nella creazione e mobilitazione del movimento Fat Liberation; ovvero dove il femminismo tradizionale non è riuscito a fornire inclusione e rappresentazione per le donne, è arrivato l’attivismo di questo insieme di persone che invece di combattere contro leggi discriminatorie, ha piuttosto cercato di modificare i pensieri e le pratiche problematiche nei confronti delle persone grasse in vari aspetti della società, con particolare attenzione ai professionisti della salute. L’ideologia “cambiare la società, non noi stessi” è alla base di gran parte del movimento, che incoraggia a modificare lo stigma che circonda la salute mentale delle persone grasse, nel tentativo di attribuire “rispetto e riconoscimento” in parte riuscendoci, anche solo nel 21esimo secolo.
Per rispondere allo stereotipo che un corpo grasso è un corpo malato basta leggere la definizione di salute dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità che la definisce come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia”.

Quello che le persone della liberazione del grasso hanno sempre promosso non è l’essere grassi in sé, ma fare del proprio corpo ciò che si vuole e se ci dovesse essere il desiderio di dimagrire questo deve derivare dall’amore per se stessi e non da una sensazione di vergogna e disprezzo causato dalla società.

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