Società

Fine della cultura di massa?

La moltiplicazione degli attori che offrono contenuti mediatici sta polverizzando la società di massa

  • 13 ottobre, 08:37
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  • Stuart Miles - Fotolia
Di: Elia Bosco 

Vanni Codeluppi, uno dei maggiori sociologi italiani contemporanei e professore ordinario presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, autore de La morte della cultura di massa (edito da Carrocci) è stato di recente intervistato ad Alphaville, da Marco Pagani ed Enrico Bianda.

Per riassumere il contenuto e la tesi di fondo del volume, è utile ripercorrere in prima analisi lo sviluppo storico di ciò che chiamiamo, forse inconsapevolmente, “cultura di massa”. Vanni Codeluppi individua la nascita della cultura di massa nel momento in cui prese avvio il processo di industrializzazione di massa, nel secondo Dopoguerra, tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento.

L’industrializzazione e la cultura di massa, afferma Codeluppi, non solo sono fenomeni che si sviluppano parallelamente nello stesso periodo storico, ma condividono anche caratteristiche molto simili. L’importazione, dagli Stati Uniti, di modelli industriali di produzione permise l’arrivo, in Italia, di elettrodomestici quali frigoriferi, lavatrici, televisioni, prima poco diffusi ed ora, grazie appunto all’abbassamento dei costi di produzione, accessibili alla maggior parte delle famiglie.  

Lo stesso fenomeno avvenne a livello culturale. Basti pensare al mercato editoriale che, grazie alla produzione industriale, cominciò a sfornare una quantità immensa di libri. Nascono, ad esempio, gli Oscar Mondadori, l’idea del libro tascabile e del libro diffuso a grandi masse di persone, con un costo accessibilissimo proprio perché prodotto in grande serie e destinato ad un target quantitativamente importante. Come gli elettrodomestici, la cultura passa da essere un’esclusiva delle élite sociali a un prodotto la cui fruizione è possibile anche alla maggior parte della popolazione proprio per la sua accessibilità. Ciò permise un innalzamento del livello culturale medio, perché incentivò l’alfabetizzazione, la scolarizzazione ed incrementò in maniera significativa la quantità di persone che scelsero di laurearsi, contribuendo allo stesso tempo ad aumentare la portata del mercato dell’industria culturale. In questo processo un ruolo centrale lo ricopre, come ci si può aspettare, la televisione, che diventa un vero e proprio simbolo di welfare, di benessere sociale. A metà degli anni ’50 entra in scena, nel panorama italiano, la Rai, che diventa principale attore del consumo di massa di messaggi televisivi, portando con sé una quantità immensa di contenuti ed immagini rivolti alla popolazione intera. Quando si guardava un programma in televisione, non lo si faceva mai da soli, ma ci si sentiva in compagnia di altri milioni di persone che in quel momento stavano guardando la stessa cosa. Ci si sentiva partecipi di un ascolto collettivo, che il giorno dopo avrebbe permesso, nella quotidianità, di condividere opinioni sui contenuti trattati il giorno prima in tv.

Tutti questi nuovi protagonisti del panorama culturale, che per loro natura hanno come audience la fetta più numerosa della popolazione, contribuiscono a formare una comunità che condivide, oltre alla lingua, un immaginario comune in cui identificarsi, sentendosi così parte di una collettività più ampia, che esce dai confini locali e regionali per unire il Paese a livello nazionale. Ecco cosa si intende per cultura di massa: un sistema condiviso di temi, immagini, testi che interessano la stragrande maggioranza della popolazione nazionale. L’industrializzazione, vera scintilla dell’intero processo, ha consentito di riempire le cose di beni di consumo che prima non esistevano e, parallelamente, ha consentito anche l’offerta di prodotti culturali di massa, giocando così un ruolo centrale nello sviluppo della società dei consumi.

Per rendere possibile l’ascolto collettivo che crea riferimenti culturali comuni era necessario, quindi, che i produttori di contenuti fossero pochi e che l’offerta culturale fosse in qualche modo limitata, omogenea, coerente con sé stessa: il cosiddetto broadcast. Oggi, con l’evoluzione tecnologica e l’avvento dei social, delle piattaforme streaming e di tutto ciò che è collegato ad internet, nonostante la televisione e i mezzi di comunicazione broadcast siano ancora in parte rilevanti, la vita delle persone si è dislocata sulle piattaforme digitali. Se fino a pochi decenni fa la cultura di massa permetteva il consolidamento di contenuti condivisi dalla maggioranza della popolazione, creando delle fondamenta culturali condivise, oggi quelle fondamenta si sono polverizzate perché gli attori che offrono contenuti culturali si sono moltiplicati ad infinitum, frammentando l’offerta e dando così fine, almeno apparentemente, alla società di massa.  

Massa è tutto ciò che non valuta se stesso - né in bene né in male - mediante ragioni speciali, ma che si sente “come tutto il mondo”, e tuttavia non se ne angustia, anzi si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri.

José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, 1930

C’è da chiedersi se la fine della cultura di massia sia un male. La citazione del filosofo e sociologo spagnolo José Ortega y Gasset (Madrid, 1883 - Madrid, 1955) sembra farci intuire che uscire dal concetto di massa sia in realtà una conquista in favore dell’individuo. Alla sua concezione negativa del termine “massa” si collega un’intera tradizione che pone le sue radici nella Grecia antica, in particolare nel concetto aristotelico di eudaimonia. Secondo Aristotele, ogni essere umano ha in sé una specifica vocazione, un preciso scopo per cui è nato, un demone (daimon) che necessita di essere realizzato bene (eu). La realizzazione del proprio demone, della propria inclinazione, della propria natura permette di raggiungere la felicità: per dirlo in greco, appunto, l’eudaimonia. È un concetto, quello appena riassunto, che fa dell’individualità la sua premessa fondante. La cultura di massa, in questo senso, che omologa e fornisce a chiunque i medesimi modelli, in qualche modo intralcia il cammino verso la conoscenza della natura propria di ogni individuo, che viene standardizzato, appiattito e, forse, sviato dal percorso di vita che permetterebbe di avvicinarsi quanto più possibile al concetto di felicità aristotelica. L’enorme offerta, variegata ed eterogenea, potrebbe forse aprire nuovi spiragli, dare nuove forme e nuovi campi di ispirazione. Individualizzare, insomma, l’utente che ne fruisce. È certo che per ambire a una missione così nobile, i nuovi emissari di contenuti devono essere consapevoli della responsabilità civile che il loro ruolo comporta. Pensare, in poche parole, al messaggio e all’esempio che i loro contenuti veicolano.

Rientra nel discorso della cultura di massa anche un altro fenomeno, quello della cultura popolare. Si è soliti distinguere, o addirittura contrapporre, la cultura di élite alla cultura popolare. Innanzitutto, cultura popolare e cultura di massa non sono termini sinonimici, bensì parlano di due fenomeni molto diversi. La cultura popolare è la produzione spontanea delle classi subalterne, quella che viene spesso denominata folcloristica. Si tratta di un patrimonio, trasmesso nei secoli, che ha come forma di espressione ad esempio la fiaba, il mito, la religione, le tradizioni e le usanze di una certa società. La cultura di massa, come abbiamo detto, è invece un fenomeno tipico delle società che sono entrate nella fase del consumo di massa ed è un prodotto costruito all’interno dell’industria culturale da coloro che ne gestiscono i mezzi, ossia i mass media. Se la cultura popolare identifica, individualizza le entità territoriali, la cultura di massa standardizza la società su scala nazionale e, così facendo, contribuisce alla dissoluzione di un patrimonio culturale, storico, identitario proprio delle singole popolazioni che convivono nei confini dello stesso Paese. Se pensiamo, ad esempio, all’espressione dialettale, non sorprende che sia in netta decrescita. L’alfabetizzazione di massa, pur necessaria nella società di odierna per questioni di natura pratica, ha come effetto collaterale quello di dare avvio a un processo, difficilmente arrestabile, di perdita dell’autenticità:

La rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

Pier Paolo Pasolini

26:33

Fine della cultura di massa?

Alphaville 01.10.2024, 12:30

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