Quando è stato chiesto a Jacques Audiard quanto avesse approfondito la realtà del Messico, ambientazione del suo nuovo film, il regista ha risposto con disarmante semplicità: «Non ho studiato molto, quello che dovevo capire già lo conoscevo un po’». Emilia Perez, il musical diretto da Audiard, ha conquistato festival e audience internazionali, portando a casa quattro Golden Globes e ottenendo tredici candidature agli Oscar. Ha trionfato anche in Europa, vincendo il premio della giuria, quello di migliore attrice al festival di Cannes, otre a nove minuti di ovazione del pubblico a fine proiezione. In Messico, al contrario, ha suscitato polemiche ancor prima di approdare nei cinema lo scorso 23 gennaio.
La trama racconta la storia di un boss del narcotraffico che inscena la propria morte per sottoporsi a un intervento di riassegnazione di genere e vivere come donna. Tornato in Messico sotto mentite spoglie, da carnefice si trasforma in difensore della causa dei desaparecidos. Un tema doloroso, che riguarda oltre 121.000 vittime di sparizioni forzate, viene qui affrontato con un approccio semplicistico, giudicato irrispettoso verso chi lotta quotidianamente per ritrovare i propri cari. Artemisa Belmonte, la cui madre e tre zii sono vittime di sparizione forzata, ha lanciato la petizione Ni un premio mas a Emilia Perez – Non un premio in più a Emilia Perez - con cui chiede la rimozione del film nelle sale, ottenendo al momento oltre 11.700 firme.
Il film ha anche attirato critiche per come viene presentata la protagonista in quanto transgender, aliena alla realtà del Messico, secondo al mondo per omicidi di persone trans.
L’uso della lingua è risultato particolamente problematico, sebbene il film sia girato in spagnolo, i principali attori non sono messicani, utilizzano un linguaggio distante dallo slang locale, con un miscuglio di accenti diversi. Selena Gomez, che interpreta la moglie del boss, fatica a pronunciare le sue battute, non essendo di madrelingua spagnola. Audiard, dal canto suo, non parla spagnolo, e gran parte del film è stato girato in Francia. Per molti messicani, Emilia Perez rappresenta l’ennesima banalizzazione della violenza che dilania il Paese, trasformando un dramma umano in mero spettacolo.
La trappola della spettacolarizzazione non è nuova. Quando venne lanciata Narcos nel 2015, la serie fu un successo globale, raccontando l’ascesa e la caduta di Pablo Escobar, il boss più famoso di tutti i tempi. Tuttavia, in Colombia, dove la serie è ambientata, la reazione fu meno entusiasta. Anche in quel caso, la lingua parlata, lontana dallo slang degli ambienti descritti, e l’accento del protagonista (interpretato dal brasiliano Wagner Moura) furono bersaglio di critiche. Per molti colombiani, il Paese finiva per essere ridotto a un palcoscenico del crimine, privato della sua complessità culturale.
Tre anni dopo, con Narcos: Mexico, la narrazione si ampliò. La serie, ambientata in Messico, si concentra sull’evoluzione dei cartelli della droga senza focalizzarsi su un unico personaggio, come Escobar, offrendo una valida prospettiva storica, politica e sociale. Scelte come il coinvolgimento dell’attore messicano Diego Luna nel ruolo di Félix Gallardo, leader del cartello di Guadalajara, contribuirono a conferire maggiore autenticità. Eppure, la rappresentazione degli agenti statunitensi della DEA rimane stereotipata, dipingendoli come moderni cowboy, e le donne in ruoli di potere continuano a rispondere a canoni estetici distanti dalla realtà.
Un caso emblematico sulla rappresentazione femminile nel mondo del crimine è la miniserie di grande successo Griselda, che narra la storia vera di Griselda Blanco. Negli anni ’80, Blanco dominava il mercato della cocaina a Miami. Interpretata da Sofia Vergara, l’attrice si distanzia dai ruoli glamour di Hollywood, adottando un look più autentico, con un trucco pesante e un’immagine meno appariscente. Tuttavia, la narrazione stenta a riconoscere Griselda Blanco come un’abile e spietata figura del narcotraffico, preferendo ritrarla come vittima di un sistema che la costringe al crimine, inizialmente per prendersi cura dei figli.
Questa prospettiva si discosta da quella riservata ai protagonisti maschili, che difficilmente vengono rappresentati come vittime delle circostanze, né la loro paternità viene considerata un fattore rilevante. Sullo schermo, le donne appaiono spesso subordinate a un sistema patriarcale, rendendo difficile riconoscere loro la capacità di scalare i vertici gerarchici anche nel mondo del crimine.
Nel vasto panorama dei film narcos, esistono però produzioni che, pur raccontando storie di finzione, si distinguono per l’autenticità. Un esempio è Sujo, premiato ai festival di Sundance e San Sebastián. Diretto da Fernanda Valdez e Astrid Rondero, il film segue la storia di un bambino di quattro anni che perde il padre, un sicario di un cartello, e si trova di fronte al dilemma di seguire le orme paterne o cercare una via di uscita.
Ispirato al lavoro del giornalista Javier Valdez Cárdenas, ucciso nel 2017, Sujo offre uno spaccato crudo e realistico di ambienti dove non esistono individui solo buoni o cattivi, e neppure realtà immutabili. In contrasto con Emilia Perez, ha ottenuto il favore del pubblico messicano, ma non è stato selezionato per rappresentare il Paese agli Oscar.
A prescindere dal numero di statuette che Emilia Perez riuscirà a conquistare, il suo successo mondiale dimostra quanto il tema del narcotraffico continui a esercitare un fascino irresistibile grazie alla sua combinazione di intrighi e complessità. Tuttavia, rappresentare questa realtà è un percorso ad ostacoli, in cui rimane difficile bilanciare spettacolo e denuncia, attrazione per il sensazionalismo, autenticità e il rispetto per le vite segnate dalla violenza.
Sujo: i bambini che nascono nel narcotraffico
La corrispondenza 17.01.2025, 07:05
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Le nomination agli Oscar
Telegiornale 23.01.2025, 20:00
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