Stay woke, “stay sveglio”, era lo slogan con cui gli afroamericani rivendicavano i diritti delle persone di colore. Con il tempo il termine woke è stato esteso a quelli che si ritenevano svegli, non dormienti, cioè i militanti di sinistra, i promotori delle lotte sociali. I nemici del razzismo, ma anche delle discriminazioni sessuali e della violenza sulle donne, quelli insomma che non volevano rinunciare a far sentire la loro voce contro il conformismo sociale. Il movimento si è esteso negli ultimi anni anche all’Europa, ma già si era incontrato con la cosiddetta cancel culture, che si propone di eliminare, boicottare o osteggiare i prodotti culturali che rechino tracce di discriminazione. La “cultura della cancellazione”, come traduciamo letteralmente il termine, è una spinta a redimere il passato dalle sue presunte colpe, censurando nel presente. Così si rigettano grandi opere d’arte, si respingono fiabe per bambini, si rifiutano modi di dire eventualmente emendando dei loro presunti errori nella totale mancanza di ogni senso storico.
La prima voce è quella di Alessandro Chetta, giornalista che ha appena pubblicato per Aras un saggio che si intitola I nuovi bigotti. Il politicamente corretto come religione laica. Ne parla così ai microfoni di Laser:
Il libro è una disamina sul politicamente corretto secondo un’accezione, un taglio particolare e cioè religioso. Il politicamente corretto lo intendo come una religione laica o laicista, che si comporta come un vero e proprio culto, e cioè prova ad imporre una propria visione del bene e del giusto e per farlo mette in campo una potenza di persuasione che spesso può sfociare nella censura e nel dogma. La cosiddetta cancel culture rivede il passato con le lenti del presente e così facendo non può che scorgere sia nella produzione artistica che in quella di pensiero una totalità immorale irricevibile. Quando il femminismo diventa misandria, quindi odio indiscriminato per i maschi, quando l’antirazzismo diventa odio indiscriminato per le persone bianche occidentali cisgender, quando la body positivity - che opportunamente combatte la grasso-fobia e anche i modelli dei corpi perfetti - esercita a sua volta un controllo sui corpi che può essere in determinati casi altrettanto rischioso.
La seconda voce è quella di Annalisa Ambrosio direttrice didattica di Academy, il corso di laurea triennale in scrittura della Scuola Holden. Il politicamente corretto diventa agli occhi della studiosa un esercizio di civiltà e un modo per mettersi in discussione in quanto membri di una società patriarcale che, come ogni tipo di società, ha dei limiti intrinseci di cui bisogna sviluppare una consapevolezza:
Credo che ogni progresso sia accompagnato da una specie di nuovo culto. Qui è il culto dell’inclusione. Credo però che di per sé lo sforzo di essere trasparenti a se stessi e di identificare i propri bias culturali sia una buona ragione di progresso. L’espressione migliore in realtà è forma mentis, dare una nuova forma alla nostra mente, superando certi pregiudizi e stando attenti a non reiterarsi nel linguaggio. Quando qualcuno ha fretta di tradurre il politicamente corretto in una regola, solitamente si perde ogni complessità e il politicamente corretto diventa un galateo; ma il galateo non ha mai funzionato. Oppure diventa una censura, tuttavia censura e progresso non possono stare nella stessa frase, per quanto mi riguarda. Una conseguenza cattiva di questa rivoluzione è stata la creazione della “polizia del politicamente corretto”, cioè la creazione più o meno consapevole di una nuova forma di potere che si basa su una discriminazione inversa. Una conseguenza invece buona è l’esatto opposto, cioè abituarsi ad accogliere in noi una quota maggiore di complessità. Per dirla in termini più filosofici, praticare il dubbio, decidere che il modo in cui abbiamo parlato fino all’altro ieri non fosse necessariamente l’unico possibile o l’unico giusto. Questo mi pare un enorme esercizio di civiltà.