Si ricorderà la polemica scatenata da Umberto Eco pochi mesi prima di morire: I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli. E ancora: La tv ha promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che sta promuovendo lo scemo del villaggio a portatore di verità», osservava Eco che invitava i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno.
La polemica ebbe un'eco mediatica notevole, soprattutto, manco a dirlo, in internet, dove i più si scatenarono ad affermare che no, il maestro per una volta aveva toppato, che la rete è il migliore dei mondi possibili… e via con gli insulti. In una delle sue ultime «bustine» (che adesso chiude Pape Satàn Aleppe) Eco aveva replicato, sornione, facendo una botta di conti: Facebook ha moltiplicato i complotti e le bufale, ha diffuso le menzogne più astruse, consolidato le superstizioni, sublimato le velleità di chicchessia.
Il dibattito è quanto mai aperto, e induce a riflettere sul web e i suoi cascami. A proposito di internet si è detto di tutto e di più. Pro e contro. Salutato agli esordi come la panacea di tutti i mal di pancia ideologici, terreno dove la libertà di parola avrebbe foraggiato il peace-and-love post-californiano, è diventato l’inferno a cielo aperto dove ignoti oligarchi succhiano il sangue biancastro del popolo bue. La dialettica fra apocalittici e integrati è viva e vegeta, ed è curioso che sia stato proprio Eco ad alimentarla, lui che l'aveva criticata in un suo sardonico saggio.
Al di là del giudizio, c’è un dato di realtà che non si può negare: internet è uno specchio (probabilmente uno dei più affidabili) della società. In questo senso è prezioso: grazie ad esso è infatti possibile verificare il grado di cultura o di imbecillità con cui siamo confrontati. Basta navigare per qualche ora in rete, leggere post, commenti, interazioni, per capire in che procelle stiamo muovendoci. E allora, confessiamocelo, non c'è di che stare allegri. L'anonimato offerto da internet nella piazza globale (dove tutti si sentono autorizzati a parlare di tutto) sta scatenando una vera e propria emergenza sociale. E non alludiamo alle bufale o alle fake news, che vanno sconfitte all'arma bianca, cavalcando la tigre dei social e smascherando l'imbroglio, punto su punto, stiamo parlando dell’hate speech, della ferocia e dell'odio che dilagano in rete.
L'hate speech, ovvero la spirale di insulti che si autoalimentano infestando la piazza digitale, sta travolgendo ogni cosa. Lo sa bene chi cerca di mettere in piedi degli account o dei forum di interazione, con la speranza di favorire lo scambio di idee, trovandosi invece travolto da un fiume in piena di bile e livore. L'universo degli haters, dei troll, delle shitstorm e del cyberbullismo dilaga in maniera esponenziale, facendo leva sul concetto di gregge nella sua più infima accezione.
La veemenza dell'insulto si autoalimenta infatti con la partecipazione attiva di altri haters, i quali si rincorrono e creano quella che viene chiamata echo chamber, cassa di risonanza in cui un gruppo utilizza l'effetto gregge per fomentare a valanga il vilipendio contro la persona presa di mira. Quello che, secondo molti osservatori, sfugge all'hater medio è che dietro il profilo insultato ci sia un essere umano in carne e ossa, una persona con una vita, una famiglia, amici e una dignità.
La tastiera e i social tolgono umanità agli esseri umani, consentendo a chiunque di sputare le proprie sentenze vigliacche dentro il calderone anonimo e virtuale della rete, senza l’obbligo di guardare negli occhi il proprio bersaglio. Lo avevano già osservato gli studiosi dei conflitti bellici: con l’introduzione della tecnologia l’atto di uccidere è stato anestetizzato e rimosso dalla coscienza. Schiacciare un tasto per far esplodere una bomba, non è come guardare negli occhi il proprio nemico e decidere di segnarne l’esistenza con un fucile o con un coltello. L’odio, come ci ricorda lo psichiatra Vittorio Lingardi, autore del libro Citizen gay, affetti e diritti (il saggiatore), è sempre figlio di un disturbo o un disagio e i social network spesso funzionano come luoghi di evacuazione delle proprie scorie psichiche. Il tweet o la sparata su Facebook sono forme di distruttività e vigliaccheria virtuale, sono forme di bullismo senza esposizione fisica. Fare i prepotenti con chi è debole o diverso, serve per sentirsi e farsi percepire dal branco come elementi dominanti.
Le principali categorie contro cui si scagliano le shitstorm sono le categorie deboli o minoritarie: le donne (con una percentuale altissima, indice di una società sessista e misogina), quindi gli omosessuali e i migranti, a seguire i diversamente abili e gli ebrei. Giovanni Ziccardi, professore di Informatica Giuridica alla Statale di Milano, nel suo libro L'odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete fa una distinzione: Da una parte c'è l'hate speech, originato da cose importanti come razza, religione e credo politico, dall'altra c'è quello che io chiamo odio interpersonale, scaturito, invece, da cose banali, come per esempio l'elezione di Miss Italia o l'Oscar a Di Caprio. La cosa drammatica è la tendenza a far degenerare ogni tipo di discussione virtuale dentro la spirale dell'odio e dell'insulto.
Il campo semantico preferito per veicolare l'odio è quello ferale, razzista, violento o sessuale. L’odio viene riversato con cinismo e spietatezza, augurando la morte al proprio interlocutore. Augurio che purtroppo a volte giunge a buon fine, con il suicidio di chi è stato così ferocemente offeso. Regolamentare il fenomeno punendo i responsabili dell'odio social non è facile. Servirebbero leggi globali, difficili da applicare. E allora, l’unica cosa che si può fare, è spendere tempo nella formazione, innanzitutto a scuola, ma anche nelle aziende, nel mondo del lavoro, insegnando il rispetto per il prossimo e la dignità delle persone che vivono dall'altra parte della tastiera. Una sorta di educazione civica 2.0 che contribuisca a generare una civiltà online più giusta e dignitosa. Ma come è possibile se anche quella non online mostra le stesse derive, e se l’una è in realtà specchio dell'altra?