Società

La lezione di Basaglia

Lo psichiatra che ha rivoluzionato le cure e portato alla chiusura dei manicomi

  • 11 marzo, 07:14
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Di: Ansa/Red.

L’11 marzo 2024 è il giorno centenario della nascita di Franco Basaglia, lo psichiatra al cui nome è legato il superamento definitivo dei manicomi in Italia.

Basaglia è considerato il fondatore del concetto moderno di salute mentale e, ancora oggi, le sue teorie hanno un forte peso in ambito psichiatrico. Restituì dignità alla malattia mentale, non considerando il paziente come un oggetto da aggiustare, ma una Persona da accogliere, ascoltare, comprendere, da aiutare, e non da recludere o da nascondere. Non è un caso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia definito l’esperienza basagliana al manicomio di Trieste “spunto di riferimento mondiale per la presa in carico dei disturbi mentali”.

Franco Basaglia nasce a Venezia l’11 marzo 1924. Dopo 13 anni come docente di psichiatria all’Università di Padova, nel 1961 vince il concorso di direttore all’ospedale psichiatrico di Gorizia, dove entra in contatto con le terribili condizioni di vita delle persone ricoverate: uomini, donne e persino ragazzi, spesso vincolati nelle camicie di forza o nei letti di contenzione, sottoposti a trattamenti inumani come elettroshock, lobotomie e bagni ghiacciati; sedati con un uso massiccio di psicofarmaci.

In quegli anni, infatti, le persone con sofferenza psichica sono considerate pericolose per sé e per gli altri e quindi sono tenute separate e nascoste dal resto della società in luoghi chiusi e isolati, quali erano appunto i manicomi, dove spesso vengono sostanzialmente abbandonate. Non c’è cura ma controllo.

A Gorizia allora, insieme a un gruppo di giovani psichiatri, Basaglia inizia la sua battaglia per restituire diritti e dignità ai pazienti del manicomio: abolisce contenzioni fisiche ed elettroshock e sostiene un nuovo rapporto tra medico e paziente, non più verticale ma orizzontale, basato sull’ascolto e sulla parola, in cui pazienti e operatori hanno pari dignità e pari diritti. Cambia anche la vita quotidiana dell’ospedale, con momenti di festa e aggregazione, gite e laboratori artistici e teatrali. 

Si iniziano ad aprire le porte dei padiglioni e i cancelli della struttura, ma il tentativo di Basaglia di superare l’istituzione manicomiale e portare l’assistenza psichiatrica sul territorio fallisce, a causa della resistenza dell’amministrazione locale.

Nel 1971, Basaglia vince il concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste, dove il presidente della Provincia Michele Zanetti, da cui all’epoca dipendeva il manicomio, gli garantisce piena libertà di azione, appoggiando il suo progetto di superamento del manicomio e di un’organizzazione territoriale della psichiatria. È la cosiddetta “deistituzionalizzazione”.

Il dolore degli altri

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Trieste, il punto di svolta

Quando Basaglia arriva a Trieste, la struttura ospita 1.182 persone di cui 840 sottoposte a regime coatto e subito lo psichiatra si mette al lavoro per riorganizzare équipe mediche e reparti e rompere l’isolamento del manicomio, integrandolo con la città. 

L’obiettivo ultimo è chiudere il manicomio e affidare i pazienti a una rete di cura e inclusione sociale e lavorativa sul territorio, mirando a responsabilizzare le persone con disagio psichico e a renderle autonome. Nel parco dell’ospedale si organizzano corsi di pittura, scultura, scrittura creativa e teatro. Tra le varie iniziative artistiche, nel 1973 prende forma l’opera collettiva “Marco Cavallo”: un cavallo di cartapesta azzurro, alto 4 metri, così da poter idealmente contenere nella sua pancia i sogni e i desideri dei pazienti.

L’eredità di Basaglia

Con Basaglia la società intera inizia ad interrogarsi su cosa sia la pazzia, storicamente caratterizzata da una visione manichea: “da una parte il normale e dall’altra il folle, un meccanismo comodo”. Basaglia invece dice che “la follia è una condizione umana, come la ragione. Non è così netta la divisione. C’è un’infelicità di fondo che ci portiamo dietro, tutti chi più chi meno”.

Questa rivoluzione concettuale porta a una rivoluzione delle strutture:  vengono abbattute le reti, i pazienti sono lasciati liberi di passeggiare, mangiare all’aperto, di lavorare, di riunirsi in assemblee. Vengono istituiti servizi di diagnosi e cura con le porte aperte, abolito l’elettroshock, eliminata la violenza, il trattamento sanitario obbligatorio e il contenimento vengono limitati per legge ai casi gravissimi. L’impossibile diventa possibile. Senonché una rivoluzione culturale ha bisogno di tempo per soppiantare schemi millenari, e lo stigma della malattia mentale continua ad imperversare nell’immaginario collettivo.

L’eredità di una riforma psichiatrica

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