Società

La trap è morta, viva la trap!

Ghali, il New York Times e la fine di un’epoca

  • 10.08.2023, 10:42
  • 14.09.2023, 11:05
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Di: Pablo Creti 

La Dark Polo Gang è morta, Ghali è sul New York Times e Sfera Ebbasta non si sente tanto bene. E la trap, sicuramente quella in italiano, un fenomeno generazionale che ha segnato gli ultimi dieci anni, attirando verso di sè un numero incredibile di giovani ascoltatori, sembra, forse, aver trovato la sua pace eterna. E tutti i figli, cugini e nipoti della trap, come ad esempio la Drill, non sembrano avere i numeri, la forza, i personaggi per eguagliare un fenomeno che è stato davvero gigantesco.

E possiamo provare a tracciare una linea della sua storia partendo da Ghali. Insieme a Sfera Ebbasta, il rapper milanese di origine tunisina, che si può quasi definire il papà della trap italiana (anche se i puristi del genere potrebbero rintracciare, incredibilmente, nel famigerato BelloFigo il primo rappresentante del genere), aveva già compiuto una svolta pop piuttosto eclatante, abbandonando stile, sonorità, carattere, temi e stereotipi tipici della trap. Sempre insieme a Sfera, che nel frattempo è diventato un cantante di livello globale, presentissimo nelle classifiche Spotify di tutto il mondo e ricercato per featuring da artisti come J Balvin o Diplo, Ghali si è trasformato in una vera e propria icona del cambiamento, verrebbe da dire quasi sociologico, della musica italiana e la sua intervista sul New York Times è probabilmente l’affermazione definitiva di questo status. A partire dal titolo: “Can a Rapper Change Italy’s Mind About Migrants?”.

E, in effetti, Ghali è stato anche il primo dei (t)rapper italiani a cercare di trasformare tematiche e cardini di quel genere, partendo da un contesto diverso da tutti gli altri. Sin dall’inizio della sua carriera, Ghali era l’arabo, il tunisino che aveva portato nuove sonorità, un’immagine che sicuramente è servita per scalare le ripide montagne del rap italiano, ma che in poco tempo è diventata stretta. Ghali trapper ha parlato alle nuove generazioni di sogni, immigrazione, razzismo, diversità, fame e voglia di affermarsi, un immaginario preciso che lo ha contraddistinto e anche lanciato verso un mondo altro rispetto alla scena hip hop.

Forse qui è bene precisare che lo stereotipo che circonda la musica trap (spesso confermato da diversi esponenti del genere) è qualcosa di più ampio del semplice “sciroppo, soldi e volgarità”: cantanti come Sfera Ebbasta, lo stesso Ghali, Achille Lauro, Capo Plaza, la FSK e altri hanno sempre portato la provincia e la vita di strada dei quartieri più difficili italiani nei propri testi, diventando rappresentanti di un mondo giovanile spesso nascosto e sconosciuto. Insomma, va riconosciuta alla trap una certa rilevanza sociale.

Ciò che poi ha cercato di fare Ghali, proprio nel solco di questo immaginario, è di parlare a un pubblico più ampio possibile di queste tematiche, di queste realtà, avvicinandosi al pop, al reggae, al funk, ma veicolando sempre quel tipo di messaggio, passando dal mainstream all’underground, muovendosi su più livelli, sdoganando, ma in qualche modo uccidendo il suo essere un trapper. E insieme alla sua ascesa nell’olimpo pop della musica italiana, e, in contemporanea (ma in maniera decisamente diversa), a quella di Sfera Ebbasta (le cui radici trap rimangono forse solo a livello stilistico), il pubblico generalista italofono si è abituato all’Achille Lauro sanremese, a conoscere e apprezzare Lazza, a sentire Tony Effe duettare con Emma Marrone… La scena trap è cambiata, trovando spazi che nessuno si sarebbe aspettato. Così piano piano si è spenta la fiamma di un genere che ha visto passare decine e decine di cantanti, più o meno quotati, più o meno profondi, ma capaci di scolpire con testi e sonorità una pagina non trascurabile della musica italiana.

Una pagina spesso bollata (soprattutto dal mondo “adulto”) come inutile, superficiale, vuota e pericolosa, ma che proprio per il suo impatto sull’immaginario collettivo giovanile avrebbe forse meritato più apertura nell’essere ascoltata e analizzata, anche per capire che eredità ha lasciato e che cosa possiamo aspettarci da nuovi artisti cresciuti su quelle sonorità ma orfani, oggi, di rappresentanti di quel calibro. Già perché quella che fino a poco fa era considerata la più “fresca” e “innovativa”, la musica che ha costretto anche i rapper storici italiani a tentare di inseguire quei gusti per non perdersi per strada una fetta gigante di pubblico, sembra essere sparita dal radar, sì emulata, sì trasformata, ma svuotata della sua essenza dirompente e di rottura.

Autotune trap

Ecco, forse non possiamo ancora parlare di una definitiva sepoltura con tanto di fiori e funerale. Alcune canzoni sono ancora là in alto su Spotify, i numeri sui social sono sempre altissimi, c’è addirittura qualcuno che sta provando una difficile rianimazione, ma a essere svanite sono soprattutto l’euforia e la magia di un movimento eterogeneo (troppo semplicemente bollato come banale) che ha conquistato il mondo giovanile come forse nessun altro. L’appiattimento artistico a cui hanno contribuito i social network e la facilità con cui dopo il botto iniziale si sono avvicinati cantanti dotati e altri decisamente non dotati ha saturato completamente la scena rendendo di fatto impossibile una sua evoluzione. Nel 2016, l’anno d’oro della trap italiana, la novità era reale, la Dark Polo Gang, Sfera, Ghali e gli altri hanno davvero trasformato e ridato vita a tutto il rap, ma oggi sembra che proprio il rap abbia capito che può fare a meno della trap, spostandosi su un recupero delle sue origini più “classiche” o cercando un prossimo fenomeno da cavalcare e inglobare. Un vero e proprio fratricidio verrebbe da dire.

E allora sì, la trap è morta, ma viva la trap, perché al di là di sguardi semplicistici, raccontarla oggi vuol dire ritrovare le tracce di un mondo giovanile, urbano, disperato e nascosto che ha avuto bisogno di questi modelli per avere una speranza di emergere, di farsi notare, di avere una voce. Che poi quella voce sia stata accompagnata dall’autotune, a pensarci bene, è un’immagine decisamente calzante, forse addirittura poetica, di questi ultimi dieci anni.

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