“Ma che razza di uomo sei?” “Ma che razza di parole usi?” Quanto spesso ci capita di usare le parole senza essere consapevoli del bagaglio di pregiudizi, falsi significati, equivoci e inganni che esse possono portare con sé. È il caso del termine razza: comparso in Sicilia attorno alla metà del Duecento, dal francese haraz, il cui significato è “allevamento di cavalli”, fu per secoli adoperato solo per definire un’identità non umana. Il primo a usarlo in riferimento ad esseri umani, e con un’esplicita connotazione biologica, fu nel 1684 Francois Bernier – medico, scienziato e viaggiatore – in un articolo pubblicato dapprima in forma anonima e poi introdotto nella letteratura scientifica solo nel 1749.
È quanto leggiamo e scopriamo in Razze umane. Breve storia di un lungo inganno di Michele Pompei (Scienza Express, 2024), un bel saggio che esplora le origini e l’evoluzione del concetto di razza, mettendo in luce il ruolo cruciale della scienza nello smascherare e superare un inganno radicato nel tempo.
Gli scienziati ormai da decenni hanno infatti dimostrato in modo incontrovertibile che a livello genetico le razze non esistono: non solo il 99,9% del DNA di tutti gli umani è identico ma spesso “due abitanti del Nord America sono, ad esempio, geneticamente più vicini a un coreano di quanto non lo siano tra loro”.
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/societa/Le-razze-non-centrano--1090932.html
E non esistono dei geni ‘puri’ che identifichino un individuo come appartenente a uno e un solo popolo, come ormai ognuno può verificare facendo un semplice test del DNA per definire le etnie di appartenenza e le relative proporzioni. Ciascuno di noi è un mosaico di pezzi di DNA provenienti da varie regioni del mondo e da epoche anche remote: basti pensare che nel nostro DNA continuano ad essere attivi geni ereditati dall’uomo di Neanderthal.
Le ‘razze’ dunque non esistono – o meglio, esistono solo in zootecnia, in quanto risultato di un’opera di selezione mirata.
Il razzismo invece, ahimè, esiste eccome.
Si potrebbe dire: le razze sono solo non-umane, i razzismi sono solo umani.
Malgrado da decenni la comunità scientifica sostenga con chiarezza l’inesistenza delle razze umane, il termine continua a comparire in contesti diversi, dai dizionari alle carte costituzionali (nel libro vengono prese in esame ottanta costituzioni da tutti i continenti), fino ai questionari ufficiali. Perché l’eredità culturale del razzismo e della parola “razza”, funzionale nei secoli alla creazione di un nemico o alla sottomissione schiavistica e coloniale, è ancora profondamente radicata.
Non a caso termini equivalenti sono assenti nelle lingue asiatiche e africane. Il motivo è chiaro: il concetto di “razza” come categoria umana è un prodotto del colonialismo e di un’epoca di poco successiva, quella dell’Illuminismo.
https://rsi.cue.rsi.ch/info/dialogo/Il-razzismo-di-cui-non-si-parla--2137254.html
Come ricorda Pompei: «Per esprimere il concetto di razza biologica, fondamentalmente nuovo e sconosciuto alle culture in cui si è cominciato a diffonderlo, è stato necessario adattare all’uopo termini già esistenti».
L’autore, nei primi capitoli del libro, ci offre così la genesi e la storia dell’idea di ‘razze umane’, del ‘razzismo’, di come nasce questo concetto, e del contributo che la scienza ha fornito per porre fine al lungo inganno della loro esistenza e legittimità, sgombrando il campo anche da persistenti fraintendimenti a spese di scienziati come Darwin. Malgrado lo si sia dipinto a torto come un ispiratore e giustificatore della sopraffazione dei meno adatti da parte dei loro simili più evoluti, Darwin non sosteneva l’esistenza delle razze, tutt’altro. Secondo il celebre biologo e naturalista britannico:
«c’è un filo comune che fa risalire tutti gli esseri umani a un’unica origine, una rivoluzione autentica nella comunità scientifica ottocentesca, ancora convinta che le razze umane corrispondessero a specie evolutesi separatamente le une dalle altre”.
In altri termini: tutti noi, tutti gli esseri umani che vivono attualmente sulla terra, apparteniamo a un’unica specie: Homo sapiens.
Una specie che però – come spiega nella prefazione al libro l’evoluzionista e filosofo della scienza Telmo Pievani – nel corso della sua evoluzione ha sviluppato una innata diffidenza, una paura e un’ostilità verso il diverso: un fenomeno non solo umano e con radici biologiche, necessario in tempi remoti per la sopravvivenza tra gruppi e tribù, e che gli esperti definiscono ‘razzismo primario’.
«Innumerevoli studi di biologia, etologia, neuroscienze, psicologia evoluzionistica – precisa Pievani – segnalano infatti come l’arrivo inatteso anche di un solo individuo, ignoto alla comunità consueta che si ha intorno, attiva una reazione emotiva di pericolo».
Il razzismo secondario, invece, come spiega poi Pompei nel suo libro, è una caratteristica esclusivamente umana, nata con l’organizzazione delle prime comunità complesse – città, regni, imperi, stati – ciascuna persuasa della propria superiorità sulle altre. Da questa convinzione sono derivati fenomeni come campanilismo, sciovinismo, nazionalismo e xenofobia. In alcuni casi, tale atteggiamento può spingersi oltre, dando origine al razzismo terziario, ovvero alla formulazione di teorie razziste e politiche discriminatorie da parte di individui o gruppi all’interno della società.
Ovviamente, precisa Pievani, «scoprire che l’attitudine razzista può avere una radice evolutiva non significa giustificarla in alcun modo, ma solo provare a spiegarne il successo e la tenace resistenza dentro le nostre menti».
E serve anche a mettere in luce un paradosso, ovvero che: «il conflitto tra gruppi è stato il promotore anche della cooperazione e dell’altruismo dentro il nostro gruppo… La nostra forza consisteva nel far parte di una piccola comunità ben organizzata di famiglie, coesa, solidale al proprio interno, ma in conflitto con altre tribù. Da qui la nostra propensione a bollare subito qualcuno come appartenente o no al nostro ristretto “noi”. Era cruciale fare questa distinzione, e rapidamente, per non incappare in errori fatali per la sopravvivenza».
Ma il paradosso è doppio, e di scottante attualità. Prosegue Pievani: «non solo altruismo e conflitto nascono dalla stessa radice, ma oggi le attitudini razziste si scontrano contro l’evidenza scientifica (…) della totale infondatezza biologica e genetica delle razze umane. Il razzismo cova sotto la cenere dei nostri neuroni, ma là fuori le razze non esistono».
E infatti, partendo dalla constatazione che la scoperta dell’inesistenza delle razze scalfisce solo minimamente i razzisti, Pompei dà conto della persistenza di questo concetto nella società, e del cortocircuito culturale e scientifico che è l’idea di “razza”.
Ma, come chiosa Pievani,
«Se il contesto culturale e educativo, la propaganda e gli stereotipi sociali in cui cresciamo favoriscono la paura per il diverso, e può prevalere la nostra predisposizione naturale a rifugiarci in un “noi” protettivo e a vedere nell’“altro da noi” un pericolo (facendo uso solo del nostro cervello primitivo, ndr)…Tuttavia, vale per fortuna anche l’inverso. … l’apprendimento culturale e sociale può mitigare le reazioni istintuali. Se per esempio il volto dell’altro, africano o asiatico, è quello di un famoso atleta o cantante, l’amigdala non scatta sulla difensiva, perché subito lo riconosciamo come familiare, come “uno di noi”, a riprova del fatto che le esperienze individuali e l’educazione fanno la differenza. La cultura, insomma, può battere l’amigdala».
Nove prestigiosi scienziati ed esperti spiegano come nasce il razzismo nel cervello (Braincircle 20 marzo 2024, Aula magna USI, Lugano)
https://rsi.cue.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/il-giardino-di-albert/Che-razza-di-idea%E2%80%A6-la-%E2%80%98razza%E2%80%99--1779548.html