Società

Perché il Pride si chiama Pride?

E soprattutto perché le comunità marginalizzate, da quella LGBTQIA+ a quella delle persone disabili, sentono l’esigenza di esprimere orgoglio per la loro identità?

  • 1 luglio, 11:33
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Marsha P. Johnson nel 1970

Di: Elena Panciera 

Il primo Pride si è svolto il 28 giugno 1970 a New York, Los Angeles e Chicago. Esattamente un anno prima erano avvenuti i cosiddetti “moti di Stonewall”: sei giorni di scontri tra polizia e manifestanti LGBTQIA+. Il 28 giugno 1969, nelle primissime ore del mattino, una pattuglia della polizia aveva compiuto una perquisizione allo Stonewall Inn, bar in cui si ritrovava la comunità LGBTQIA+ al Greenwich Village, a New York (consiglio la lettura di The History of Pride, di Meg Metcalf, per la Library of Congress). Al tempo, l’omosessualità era ancora considerata reato e la polizia faceva spesso irruzione in locali come lo Stonewall Inn. Ma quegli scontri hanno cambiato la storia. E Marsha P. Johnson, Sylvia Rivera, Stormé DeLarverie, Craig Rodwell, Brenda Howard, tra le persone che reagirono alla polizia, hanno contribuito a cambiare radicalmente l’attivismo LGBTQIA+ statunitense. Vale la pena ricordarne il nome, perché spesso si tende a dimenticare il ruolo fondamentale che hanno avuto le donne, anche nere e trans, durante Stonewall. Anche all’interno della stessa comunità LGBTQIA+.

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A distanza di un anno, migliaia di persone LGBTQIA+ si riunirono per commemorare Stonewall e chiedere uguali diritti per ogni persona. Questo è il motivo per cui ogni anno, da allora, durante il mese di giugno (e luglio) si tengono manifestazioni in tutto il mondo, chiamate Pride (letteralmente, “orgoglio”).

L’attivista bisessuale Brenda Howard contribuì a organizzare questa prima manifestazione, che venne chiamata “Christopher Street Liberation Day” (Mirko Annunziata, Il pride è più di una semplice “festa” e la storia di brenda howard, la sua ideatrice, ce lo ricorda, in «The Vision», 2022). Howard è nota come “la Madre del Pride”, perché ha dato un apporto significativo alla creazione del corteo come lo conosciamo oggi, ma anche a diffondere questa denominazione.

In ambito italofono, fino a pochi anni fa era noto come “Gay Pride”. A partire dagli anni Dieci del Duemila, però, questa denominazione è stata progressivamente sostituita con il più generico “Pride” Questo per sottolineare che questo evento coinvolge tutte le soggettività che fanno parte della sigla LGBTQIA+: persone lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex, asessuali, “più” tutte le identità che non vengono esplicitamente nominate. Ma anche per restituire visibilità e dare valore al ruolo che tutte le persone LGBTQIA+ hanno avuto e hanno per la comunità e per il riconoscimento dei loro diritti.

Il nome “Pride”, però, non viene sempre compreso all’esterno della comunità. «Perché mostrare orgoglio per il proprio orientamento sessuale o per la propria identità di genere? Non si può semplicemente viverlo in modo discreto e senza schiamazzi, come tutte le persone etero e cisgender? Perché questa necessità di ostentare la propria sessualità?» sono domande che ogni persona LGBTQIA+ che ha fatto coming out si è sentita rivolgere almeno una volta nella vita.

Non è semplice spiegare a una persona che fa parte della maggioranza della popolazione (etero, cisgender…) perché “orgoglio” è una parola - e un concetto - ancora così importante per chi non ne fa parte. Ma ha a che fare con l’esigenza di affermare la propria identità, spesso negata, invisibilizzata o stigmatizzata dalla società. Ha a che fare con l’esigenza di resistere in modo positivo e collettivo a oppressioni e discriminazioni. Ha a che fare con la necessità di aumentare la visibilità, la rappresentanza e la rappresentazione delle persone LGBTQIA+ in ogni sfera della società. Ma soprattutto ha a che fare con il bisogno di cambiare la narrazione, individuale e comunitaria, da vergogna e colpa a orgoglio e dignità.

Per questi motivi, negli anni recenti, stiamo assistendo ad altri “Pride”, manifestazioni di orgoglio di altre comunità marginalizzate: il Disability Pride, celebrazione dell’orgoglio delle persone disabili, o il Mad Pride, rivendicazione dell’orgoglio delle persone con malattie mentali.
Finché non raggiungeremo l’obiettivo di vivere in una società in cui ogni persona ha gli stessi diritti (e gli stessi doveri) a prescindere dalle proprie caratteristiche identitarie, ci sarà spazio per il Pride e per la rivendicazione dell’orgoglio di far parte di una comunità marginalizzata e oppressa.

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