Un disco fonografico simile in tutto e per tutto a un LP viaggia da più di quarant’anni nello spazio; contiene una selezione delle musiche del pianeta Terra ma anche 118 fotografie, suoni, rumori e voci umane in 55 lingue diverse. Insieme al disco, anche un rudimentale giradischi. È il Voyager Golden Record, il messaggio in bottiglia che la civiltà umana ha affidato all’oceano cosmico, un biglietto da visita destinato alle civiltà aliene che saranno in grado di recuperarlo e di decifrarlo.
È una di quelle storie di cui più o meno tutti hanno sentito parlare, ma che in pochi conoscono davvero. La storia delle due sonde Voyager e del loro prezioso disco d’oro, partite il 20 agosto e il 5 settembre 1977 da Cape Canaveral per fotografare da vicino i pianeti esterni del nostro sistema solare (Giove, Saturno, Urano e Nettuno) e destinate in seguito a uscire dalla zona d’influenza del Sole e continuare il loro viaggio forse per sempre nelle profondità dello spazio interstellare.
Carl Sagan, astrofisico e star della tv americana, fu incaricato dalla Nasa di progettare un messaggio dei terrestri agli alieni, come già aveva fatto qualche anno prima con la missione Pioneer. Sulla sonda Pioneer venne applicata una targa con sopra incise alcune informazioni utili a determinare il luogo di partenza della navicella e a descrivere sommariamente gli abitanti della Terra. Sulle Voyager, invece di una targa incisa graficamente, vennero fissati due dischi fonografici in grado di contenere molte più informazioni. Musica, immagini, suoni, rumori e voci umane.
Intervista a Marco Drago e Gaetano Cappa (a cura di Clara Caverzasio)
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Il singolare LP fu progettato e realizzato in sei settimane da un équipe di scienziati e artisti guidata da Sagan. La natura stessa del messaggio agli alieni si presta alla speculazione: che musica mettere sul disco? Quali immagini? Quali lingue? Il gruppo di lavoro dovette fare tutto piuttosto in fretta, dalla selezione dei materiali alla effettiva realizzazione di un manufatto in grado di resistere al trascorrere del tempo. E non si parla di anni o di secoli e nemmeno di millenni, ma di milioni o miliardi di anni. Fu deciso dunque che il disco dovesse essere di rame placcato d’oro, con una copertura di alluminio anch’esso placcato d’oro. Avrebbe girato a una velocità dimezzata rispetto ai 33 giri e ½ dei tradizionali LP in modo da poter contenere il doppio delle informazioni e avrebbe dovuto rappresentare la Terra nel modo più completo possibile. Influenzati dal carisma dell’etnomusicologo Alan Lomax, decisi a fornire all’eventuale ascoltatore alieno un repertorio vario e interessante, Sagan e compagni stilarono una lista di musiche in arrivo da tutti i continenti, con i problemi di reperibilità che è facile immaginare. Nel 1977 non esistevano ancora i cd, figuriamoci Spotify o YouTube. Una volta decisa l’inclusione di una musica etnica, partiva la ricerca, spesso disperata, di nastri o vinili che la contenessero.
Nel Golden Record trovarono posto le fantasmagoriche cadenze del Gamelan indonesiano, i languidi canti nuziali peruviani, i raga indiani tanto cari agli hippy, le complesse trame degli strumenti a fiato dell’Azerbaigian, e poi suoni e colori da Senegal, Congo, Nuova Guinea, Messico, Isole Solomon, Australia. In quegli anni il folk extraoccidentale era praticamente sconosciuto e di fatto il Golden Record è il primo esempio di raccolta di world music, come amava definirla uno dei collaboratori di Sagan, l’etnomusicologo Robert E. Brown.
La massiccia presenza di composizioni etniche e classiche (Bach, Beethoven, Stravinsky, Mozart, Holborne) ridusse fatalmente il posto per i generi più moderni come il jazz, il blues e il rock, che si dovettero accontentare di un brano a testa.
Come per la musica classica furono tutti d’accordo nel concedere molto spazio a Johann Sebastian Bach (sono presenti ben tre sue opere), così anche per il rock non ci furono discussioni: sul disco d’oro ci sarebbe stata Here Comes The Sun dei Beatles. I Fab Four si dissero lusingati, ma la EMI smorzò subito gli entusiasmi sparando una richiesta economica inaccettabile.
Niente Beatles, dunque: e allora a chi l’onore? Si aprì il dibattito: i più giovani del team tifavano per No Woman No Cry di Bob Marley, qualcuno buttò lì il nome di Bob Dylan, ma alla fine la decisione fu presa da Carl Sagan in persona, che scelse un suo vecchio pallino di gioventù: Johnny B. Goode di Chuck Berry. La musica composta nei diciannove anni che separano il 1958, anno di uscita di Johnny B. Goode, dal 1977, anno di realizzazione della playlist per gli alieni, non fu affatto presa in considerazione, ed è un peccato, perché almeno l’avvento della musica elettronica meritava di essere trasmesso ai nostri amici extraterrestri. Non pretendiamo Stockhausen o Berio, ma magari i Kraftwerk, o anche solo la disco music di Giorgio Moroder.
Sarebbe tuttavia ingeneroso contestare le scelte dei compilatori, che si trovarono a dover agire in sole sei settimane e in condizioni spesso difficili: impossibile racchiudere in un’ora e mezza l’enorme varietà di musiche, ma anche di suoni, rumori, immagini e lingue del mondo. Perché nel disco d’oro, non tutti lo sanno, oltre alla musica sono presenti anche fotografie e audiomessaggi in 55 lingue (3 delle quali estinte), oltre a un curioso montaggio sonoro in cui dai terremoti della preistoria si arriva al lancio di veicoli spaziali, raccontando così la storia sonora della Terra in senso evoluzionistico.
Per Sagan, comunque, lo scopo principale era provare a comunicare con gli extraterrestri grazie alla musica, un’idea che in quello stesso 1977 si era vista nel film Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg. Nel film gli alieni rispondevano a tono e in una gag del famoso programma televisivo Saturday Night Live, Steve Martin pensò bene di dire a voce alta quello che pensavano tutti e mostrò una finta copertina del Time contenente il messaggio di risposta degli alieni al Golden Record. Quattro semplici parole: “Send More Chuck Berry”.
La storia del Golden Record, apparentemente riservata agli specialisti, è in realtà ricca di spunti romanzeschi. Un esempio? Nella squadra di lavoro di Sagan c’erano anche sua moglie Linda e una coppia di fidanzati, il giornalista di Rolling Stone Tim Ferris e la scrittrice Ann Druyan. In quelle sei convulse settimane le due coppie scoppiarono e Sagan finì per abbandonare la moglie e fidanzarsi con Ann Druyan (per poi sposarla e restare con lei fino alla fine dei suoi giorni, nel 1996).