Cultura e spettacoli

Noi, ad Atene, facciamo così

La storia non è forse "magistra vitae", ma a volte si ripete in forme, modi e cronache assai simili tra loro

  • 15 luglio 2015, 17:54
  • 4 settembre 2023, 21:44
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Tre primi ministri (Papandreu, Samaras, Tsipras) tre memorandum

  • Reuters

Atene, la Grecia, di questi tempi, sembrano sotto assedio. Un assedio interno: fatto di proteste, di debiti accumulati, di privilegi incancreniti e un assedio esterno, fatto di Troika (FMI, BCE, Commisisone europea), ma anche di popoli che si guardano l'un l'altro come fossero tanti "barbaroi" (stranieri) sebbene tutti siano "europei". È in questo scenario che un libro dello storico Luciano Canfora - La guerra civile ateniese - può essere d'aiuto. Un blogger (L'ultimo camerlengo) ne ha postato, qualche ora fa, uno stralcio illuminante. È uno scritto di Senofonte che, qui di seguito, vi riproponiamo.

Inverno 405 – 404 a.C.

«Gli Ateniesi assediati sia da terra sia da mare non erano più in grado di rispondere alla domanda: che fare? Non c’erano più navi, gli alleati avevano defezionato, non c’era più grano. Non c’era più scampo, pensavano: avrebbero subito la stessa sorte che, senza alcuna ragione neanche quella di esercitare una legittima punizione, avevano inflitto ad altri quando per mero spirito di sopraffazione avevano calpestato il buon diritto di piccole comunità colpevoli unicamente di “non” combattere al loro fianco. Di conseguenza per prima cosa annullarono le condanne alla “privazione dei diritti politici” (a suo tempo inflitte a chi si era compromesso con l’oligarchia), e si apprestarono alla resistenza. Intanto tanta gente moriva di fame in città, e però loro non accettavano di trattare un qualche accordo di resa.

«Quando le riserve di grano furono completamente esaurite, mandarono ambasciatori presso il re spartano Agide con questa proposta di accordo: Atene si offriva di essere alleata di Sparta ma chiedeva la garanzia che non si toccassero né le mura né il Pireo. Agide rispose: andate a Sparta. Lui, disse, non aveva il potere di decidere in merito. Gli inviati tornarono ad Atene e riferirono. Furono mandati a Sparta.

«Quando giunsero a Sellasia e gli efori seppero le loro proposte — che erano le stesse che avevano fatto ad Agide — ordinarono loro di andarsene, e di tornare con proposte migliori, se davvero volevano la pace. Quando gli ambasciatori rientrarono in Atene e riferirono, la resistenza psicologica di tutti crollò. Ormai, pensavano, sarebbero stati fatti schiavi! E si rendevano conto che, fino alla prossima ambasceria, molta altra gente sarebbe morta di fame. [...]

«A questo punto, Teramene parlò in assemblea e disse: se mi inviate presso Lisandro, tornerò avendo accertato se gli Spartani intendono ridurre in schiavitù la città, e perciò si ostinano sulla questione delle mura, o invece avanzano quella richiesta perché pretendono una garanzia (in sostanza impedire, in quel modo, che un domani Atene scatenasse altre guerre). Fu inviato. Ma restò presso Lisandro ben tre mesi e più: spiava il momento in cui gli Ateniesi, totalmente privi di grano, avrebbero accettato qualunque proposta. Il quarto mese tornò. [...]

«Teramene e gli altri nove ambasciatori giunsero a Sellasia. Lì furono fermati e fu chiesto loro con quale proposta si fossero presentati. Risposero: con pieni poteri sulla questione della pace. Solo allora gli efori li ricevettero.

Aprile 404 a. C.

«Alla loro presenza si svolse una riunione plenaria degli Spartani con gli alleati. Corinzi e Tebani soprattutto, ma anche molti altri Greci si opponevano ad ogni ipotesi di accordo: non ci si può accordare con gli Ateniesi, vanno estirpati, soppressi! Gli Spartani risposero che non avrebbero ridotto in schiavitù una città che aveva avuto grandi meriti nel momento in cui la Grecia aveva corso il massimo pericolo. Indicarono perciò le seguenti condizioni di pace: distruggere le grandi mura ed il Pireo; consegnare tutte le navi tranne dodici; far rientrare gli esuli; diventare alleati di Sparta e seguire dovunque e comunque gli Spartani in pace e in guerra.

«Teramene e gli altri nove ambasciatori che erano con lui tornarono ad Atene recando con sé questo ultimatum. Mentre entravano in città una folla enorme li attorniava. Temevano che fossero tornati a mani vuote. Alcuni si levarono a parlare per opporsi. Molti di più si dissero, invece, d’accordo. Fu varato un decreto: “le condizioni di pace sono accettate”».

m.c.

Consulta il nostro dossier: La Grecia, l'Europa, l'accordo

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