Continua la serie di incontri con alcuni dei molti frequentatori del Locarno Festival che si prepara a festeggiare i 70 anni. Dal più noto degli ex-direttori, al veterano della critica ticinese fino ad alcuni collaboratori della RSI di ieri e di oggi.
Il Locarno Festival è iniziato e oggi è il turno di Marco Müller: direttore del Festival dal 1992 al 2000.
“Spettatori come domanda sempre rinnovata; mai risposta acquisita, scontata. Scommettere sui nuovi gruppi di spettatori da catturare, questa ci sembrava la sfida più importante. Suscitare un’operazione attiva da parte di nuovi spettatori (giovani?), dentro il ritrovamento di straordinarie situazioni condivise - come la Piazza Grande. Quello che ha funzionato è stato l'incastro di opere solo di rado apparentabili, di dinamiche potenzialmente interagenti e di esperienze irrimediabilmente comunicanti. E ciò non tanto per patrimoni ideali, esigenze culturali comuni a autori e produttori, quanto per una capacità dei singoli film di generare fratture, squilibri rivelatori. Per questo abbiamo provato a mescolare le carte anche sulla Piazza Grande, riportando su quell’enorme schermo (che avevamo voluto raddoppiare di dimensione nel 1992) la parte viva del cinema americano (l'expanded cinema che continua dentro ai film di genere), per sedurre con double bills dalla schizofrenia pianificata (un esempio per tutti: il primo Speed, con le star hollywoodiane sul palco, seguito da un nuovo Kiarostami, con la presenza dello stellare cineasta). Nella convinzione che il FIFL dovesse essere una cosa viva, che cresceva proprio perché ogni anno non era più uguale a quello dell’anno precedente - dapprima cambiando il modello di retrospettiva, poi aggiungendo sezioni e contraddizioni (Cineasti del Presente, Settimana della Critica, Concorso Video), per far rinascere a ogni edizione le avventure dell’occhio, le parabole della visione planetaria.
Abbiamo lavorato con passione: dopo le prime edizioni “di assestamento” e di valorizzazione di quanto era stato portato avanti dai direttori precedenti, abbiamo potuto regalarci (dal 1995 in poi) anni di esplorazione a tutto campo, ma senza velleitarie fughe in avanti. Riflessivi perché cercavamo di guardare tanto allo stile quanto al negozio, sperando di non perdere lucidità. (Passione e lucidità, termini difficili quanto pochi altri da coniugare). Questo è coinciso con un’epoca in cui, fortunatamente, buona parte del “pubblico" cominciava a stancarsi di un cinema fatto di macchine inutilmente complicate e ingombranti. Allora come oggi (che sono ora tornate in primo piano), vale, sopra tutte esse, la forza di un gesto estetico, l’evidenza di una poetica. Dovevamo, dunque, in quei nostri particolarissimi ultimi anni locarnesi, provare a decidere a quali luoghi del cinema andava data massima visibilità. Affrontare rischi e tentare strade inedite, sperimentare il nuovo senza per questo spettacolarizzarlo, immergerci nell’originalità senza coprirci le spalle con l’idea (senza proteggerci con l’ideologia). Non tutti i tentativi di rinnovamento dovevano essere votati alla sconfitta: non è stata una palingenesi, bensì la progressiva messa a punto di uno spazio autonomo (effimero forse, ma autonomo sul serio), momento di rottura di equilibri cristallizzati dal conformismo e dall’interesse, dal disinteresse e dal vizio di abitudine. Punto di rottura di consuetudini, punto di partenza per la conoscenza e l’approfondimento, la visione e la discussione dei bradisismi, sommovimenti e fermenti che, ancora, a intervalli irregolari, riuscivano a investire i diversi modi di fare cinema, a Ovest Sud Est e Nord."
(L'intervista è stata pubblicata originariamente nel numero di luglio/agosto del mensile culturale RSI CULT)