Economia e Finanza

"Stato utile ma inefficiente"

I politici cercano consenso per difendere i propri interessi, dice Jean Tirole, premio Nobel per l’Economia nel 2014.

  • 26 giugno 2017, 20:53
  • 23 novembre, 05:12
Jean Tirole

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“Il salvataggio da parte dello Stato Italiano della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca ha evitato perdite ulteriori per gli investitori”. Sono le parole del vicedirettore della Banca d'Italia Fabio Panetta. Una vicenda questa che rimette sul tavolo da una parte la questione del ruolo dello Stato nell’economia privata e dall’altra la responsabilità delle aziende. Attualmente sembra esserci voglia di Stato: un sentimento accentuato dal fatto che non siamo usciti ancora completamente dalla crisi. Ma quando tutto sarà ritornato alla normalità, lo Stato verrà messo in disparte? Lo abbiamo chiesto a Jean Tirole, premio Nobel per l'economia nel 2014 per gli studi sui mercati e le regolamentazioni.

Professor Tirole, viviamo in un momento nel quale si chiede che lo Stato si faccia carico dei problemi dell’economia. È semplicemente perché non siamo usciti completamente dalla crisi e quindi un domani, quando tutto sarà tornato normale, lo Stato sarà messo in disparte?

Penso che abbia ragione. La crisi finanziaria, la crisi dell'euro per esempio, giocano un ruolo importante nell'ascesa dei populismi. Ma non solo, anche negli Stati Uniti assistiamo allo stesso fenomeno, anche se l'economia va bene. Ci sono molte paure per l'avvenire. Dalla disoccupazione, ai cambiamenti climatici, alla rivoluzione digitale o il debito pubblico che aumenta. Dunque si ha voglia di trovare un salvatore e ci si immagina che sia lo Stato. Ma il compito dello Stato non è quello di creare lavoro, non è quello di produrre beni e servizi, ma deve essere un arbitro. Ed è questo che bisogna far capire alla gente. Ogni volta che ci si è affidati allo Stato si è rivelato un disastro, perché non può far tutto. Lo abbiamo visto con il comunismo. C’era l'attesa dell'uomo nuovo, che avrebbe realizzato il bene comune, ma che alla fine si è rivelata una dittatura. Bisogna capire come funziona lo Stato. Può essere utile per risolvere alcuni problemi come l'inquinamento, come l'eccessivo potere di alcune industrie, alcune disfunzioni di mercato, ma non può sostituirsi al mercato. Anche lo Stato ha i suoi difetti, ha i suoi gruppi di interesse. I politici vanno verso l'elettorato, anche se ha torto, ma vogliono essere eletti, difendono i propri interessi e se non si capisce questo, non si capisce quali sono i benefici e i limiti dello Stato.

Lo Stato a volte viene indicato come quell’istituzione che dovrebbe dare anche le direttive di comportamento dal profilo etico.

Se è lo Stato che decide dell'etica, rifletterà gli interessi personali della classe dirigente al potere. L'etica deve arrivare da più parti, principalmente da noi stessi, ma anche dai genitori, dalla scuola, dalla religione dai libri che leggiamo. Bisogna però fare attenzione a che i valori non siano imposti, ma ognuno deve riflettere e discutere se un comportamento è positivo o negativo per il bene comune.

“Ognuno deve riflettere se il suo comportamento è positivo o negativo per il bene comune”

Jean Tirole

Un tema, diciamo, etico, è la fiscalità. Viviamo in un periodo di fermento per quel che concerne la lotta all’evasione fiscale. Come giudica questo momento?

L'importante è che ci sia una coerenza tra quanto si incassa e quanto si spende. Io sono contento di pagare molte tasse, a patto che riceva dei buoni servizi in cambio, cosa che non è sempre il caso. Ci deve essere efficacia nel settore pubblico, questo è importante. Per quel che concerne i paradisi fiscali, c'è un problema di base, cos'è un paradiso fiscale? Se uno Stato decide di far pagare poche tasse vuole dire che è un paradiso fiscale? Quello che bisogna evitare è la concorrenza fiscale. Abbassare le tasse per attirare capitali. Perché oggi la disuguaglianza è un problema tra Stati. Guardiamo chi crea la ricchezza, anche quella del domani. Sono le aziende tecnologiche, come Amazon, Google, Apple, Uber oppure le aziende biotech che producono nuovi medicamenti. A capo di queste imprese ci sono uomini giovani, ricchi con una grande mobilità, e andranno a stabilirsi laddove troveranno le condizioni quadro migliori, come le università con conseguente personale qualificato, ma anche dove le condizioni fiscali sono migliori. Ecco, il pericolo è che tutta la ricchezza venga creata in questi paesi, e non rimarrà nulla da redistribuire negli altri paesi, perché non ci sarà più ricchezza.

C'è poi il tema della responsabilità sociale delle aziende. Stanno facendo abbastanza in questo campo?

La nostra società fino ad oggi è stata costruita su due pilastri. Il mercato e lo Stato, che corregge le storture del mercato. Ma come dicevamo prima lo Stato è inefficiente a causa dei conflitti d'interesse con le lobby o gli elettori. Dunque possiamo ritrovarci in una situazione di inefficienza del mercato e inefficienza dello Stato allo stesso tempo. Cosa resta? La responsabilità sociale dell'individuo e delle aziende. Non dobbiamo però attenderci miracoli. Ognun agisce secondo i propri interessi. Le aziende sono pronte a fare degli sforzi, ma non diventeranno generose, così come non lo diventa l'individuo. Bisogna incoraggiare determinati comportamenti, certo, ma bisogna anche capire i limiti.

Ci sono ambiti dove la responsabilità delle aziende deve migliorare?

Ci sono tre nozioni di responsabilità sociale delle aziende. La prima è che i dirigenti abbiano una visione a lungo termine sulla sostenibilità dell'impresa a salvaguardia sia degli azionisti, che dei lavoratori. In secondo luogo la disponibilità di informazioni sull’azienda, e la terza è la responsabilità di operare per il bene comune assieme ai cittadini che sono pronti a pagare un po' di più per prodotti solidali, o gli investitori disposti a guadagnare un po' meno a favore di aziende più ecologiche. Ma con dei limiti, senza esagerare, ed è per questo non possiamo fare a meno dello Stato.

“Lo Stato deve controllare il mercato, ma è inefficiente. Rimane solo la responsabilità sociale delle aziende”.

Jean Tirole

In Svizzera gli azionisti votano se approvare o meno le retribuzioni dei dirigenti. L’impressione però è che vengano quasi sempre accettate, anche in situazioni controverse. Vuol dire che questo sistema non è efficace?

Non è perché votano a favore che questo non ha effetto. L’approvazione innesca un processo di autocensura da parte del comitato di remunerazione che limita questi bonus. L'economista su questo soggetto non può giudicare se un alto dirigente bancario debba guadagnare di più di un calciatore o di un presentatore televisivo. Alla fine ci sono le imposte che servono a redistribuire questi compensi. Quello che si può fare è strutturare questo sistema. Un dirigente che viene premiato solo perché ha avuto fortuna e non perché se lo è meritato, non va bene. Ma anche il fatto che venga premiato chi consegue risultati nel breve termine, magari prendendosi rischi eccessivi, tanto c'è lo Stato che copre eventuali perdite, non è giusto. Poi c'è la cultura dei bonus per attirare o trattenere i talenti. Dunque bisogna arrivare a premiare maggiormente i risultati sul lungo termine. Questi sono esempi di una cattiva costruzione del sistema delle remunerazioni.

Marzio Minoli

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