Succede nel cuore dell’Europa: una rete di aziende commercia un software che spia i cellulari e vende i propri prodotti anche ai regimi repressivi. L’inchiesta “Predator fIles”, appena uscita e frutto del lavoro dei giornalisti di quindici testate internazionali, rivela retroscena sconcertanti. L’industria della sorveglianza in Europa agisce senza troppi controlli né regole, con protagonisti che si muovono anche in Svizzera, fra il Vallese e il Ticino.
Si chiama “Predator” e non è altro che un software, ma di quelli invadenti. C’è chi è disposto a spendere milioni per procurarselo, e non per niente.
Predator spia i cellulari, geolocalizza i loro proprietari, intercetta le loro conversazioni, i messaggi, le fotografie. E se sei una sua vittima, non ti accorgi neanche. Offre prestazioni straordinarie. Servizi di intelligence, polizie, governi, regimi: in molti si sono interessati negli ultimi anni a Predator.
Intorno ruota un business da milioni di franchi, sui cui fa luce una nuova inchiesta giornalistica internazionale, “Predator Files”, coordinata dall’European Investigative Collaborations, con l’assistenza tecnica del Security Lab di Amnesty International e basata su centinaia di documenti confidenziali ottenuti da “Der Spiegel” e “Mediapart” e a cui ha partecipato anche la svizzera Wochenzeitung (Woz).
Ne emerge un mondo animato da uomini d’affari, aziende, filiali, intelligence e governi, che si muovono da anni fra contratti e accordi segreti. Nome chiave: “Alleanza Intellexa”, così si chiama la rete di aziende che gestisce questo business. “Con sede nell’Unione Europea e regolamentata”, come ha sempre voluto presentarsi per vantare la propria affidabilità. Ma di regolamentato c’è ben poco.
Pur inseguiti da inchieste e sanzioni, accusati di violare le leggi sulla privacy e i diritti umani, Intellexa e i suoi partner hanno operato per anni fatturando milioni. Anche in Svizzera, anche a Lugano.
Operazione spyware: dalle montagne del Vallese alle spiagge di Cipro
Lo spyware Predator è stato lanciato sul mercato nel 2018. Il padre di tutta l’operazione, Tal Dilian, è un ex ufficiale dell’esercito israeliano esperto di cybersicurezza. Dopo 25 anni di servizio, tolta l’uniforme, indossati i panni dell’imprenditore, ha lasciato Israele e ha scelto di dividere il suo tempo fra Champéry, un raccolto villaggio nelle montagne del Vallese, e le palpitanti spiagge di Cipro. Ma soprattutto si è lanciato nella promettente industria dello spionaggio digitale.
Voleva fare concorrenza alla NSO Group, la società israeliana che commerciava un altro famigerato spyware, Pegasus. Quella di Pegasus, infatti è una storia molto simile: un’inchiesta giornalistica aveva dimostrato che la NSO Group aveva venduto il software a governi di mezzo mondo e regimi repressivi per spiare giornalisti, politici e attivisti e ne era uscito uno scandalo internazionale. Uno scandalo ancor più avvelenato per il coinvolgimento di Pegasus nella morte del giornalista Jamal Kashoggi, assassinato nell’ambasciata saudita di Istanbul nel 2018.
Tal Dilian, proprio in quel 2018, annusando nell’aria la bufera che stava per travolgere Pegasus e la NSO, faceva partire il progetto Predator rilevando una piccola startup. Nel mercato dei software di sorveglianza si stava creando un po’ di spazio.
In un sofisticato balletto fra legalità e illegalità, ha flirtato fin da subito con i servizi segreti di vari Paesi, compresi quelli egiziani interessati ai suoi prodotti per controllare gli oppositori, ha intessuto rapporti con diversi regimi repressivi, si è fatto vanto dei suoi prodotti di spionaggio digitale su Forbes, è incappato in una multa per intercettazioni illegali a Cipro…
Ma niente e nessuno l’ha fermato: in pochi anni Intellexa ha venduto i propri prodotti in almeno 25 Paesi in Europa, Asia, Medio Oriente e Africa. Senza ostacoli, anche quando ha venduto gli spyware a Paesi gestiti da regimi autoritari, anche quando questi sono stati usati per minare i diritti umani, la libertà di stampa e i movimenti sociali.
Le critiche e le accuse contro Intellexa e la sua rete di aziende si sono fatte negli anni sempre più martellanti, le associazioni per i diritti umani si sono messe in prima fila a denunciarne l’operato. L’inchiesta “Predator files” è solo l’ultimo atto delle ricerche sulle controverse operazioni finanziarie di Tal Dilian.
Contattato dai giornalisti poco prima della pubblicazione dell’inchiesta, Tal Dilian non si è fatto trovare impreparato: Intellexa, ha dichiarato, oggi non esiste più.
In realtà, non sembra essere esattamente così. A Lugano i giornalisti della testata svizzera Woz hanno fatto un’interessante scoperta.
Predator di casa a Lugano
Nell’ufficio di una palazzina del centrocittà hanno trovato la sede di una società anonima gestita da un fiduciario luganese, strettamente legata a Intellexa. Il fiduciario possiede una quota significativa delle azioni di Intellexa e conclude contratti proprio a nome della società. Dai dati doganali risulta anche che nel 2022 avrebbe gestito esportazioni di software verso il Kazakhstan per quasi due milioni di franchi. Alle domande dei giornalisti sulla questione, il diretto interessato non ha voluto rispondere.
Un sistema normativo pieno di falle
Secondo l’inchiesta “Predator files”, la vicenda si svolge in un contesto normativo che mostra tutta la propria vulnerabilità.
In Svizzera e nei Paesi dell’Unione eEropea i software di spionaggio rientrano nella categoria dei cosiddetti beni a duplice impiego, beni dual-use, che possono servire sia a fini civili, sia militari, trasformandosi facilmente in armi. Per questo la loro vendita è soggetta a controlli specifici e a normative ad hoc. Il caso di Predator fa però emergere molte falle in questo sistema, i criteri di valutazione dei casi non sempre sono chiari, a volte sono venute a galla anche gravi negligenze da parte delle autorità di controllo.
“Gli Stati e le istituzioni europee non riescono a regolamentare in modo efficace la vendita e il trasferimento di questi prodotti”, ha dichiarato la segretaria generale di Amnesty International, Agnès Callamard, alla luce dei dati trapelati dall’inchiesta.
Come spiega Lorenz Naegeli, giornalista che con Anna Jikhareva, Jan Jiràt, Judith Kormann, e Kaspar Surber, ha preso parte all’inchiesta internazionale per la testata svizzera Woz, il tema è complesso. “Le aziende hanno l’obbligo di dichiarare le proprie operazioni di esportazione all’autorità competente, ma il controllo sulla produzione e il commercio di software è difficile. Le strutture di produzione sono piccole e mobili, e spesso diverse componenti vengono prodotte in luoghi diversi. Inoltre, c’è un margine di elusione molto ampio: è difficile verificare se in un computer esportato sia presente un software malevolo”.
La SECO e l’Ufficio federale delle dogane e della sicurezza delle frontiere sono in prima linea a dover affrontare questi problemi.
“Sarebbe estremamente importante che le aziende di questo settore siano soggette a una notifica obbligatoria generale”, commenta Lorenz Naegeli.
Più risoluta è la conclusione di Angès Callamard: “data l’inefficacia della regolamentazione, dimostrata più volte, l’uso di spyware altamente invasivi come Predator deve essere reso illegale”.
L’inchiesta “Predator files” nel frattempo va avanti. Le testate che vi hanno partecipato annunciano che ci saranno ulteriori sviluppi. E promettono nuove rivelazioni.
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