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Da uomo della guerra a operatore umanitario

Ha venduto 2 milioni di mine antiuomo, poi ne ha sminate migliaia nei Balcani. È la storia di Vito Alfieri Fontana, fabbricatore di componentistica militare per oltre 20 anni. Ora ha chiuso l’azienda di famiglia

  • 24 marzo, 10:49
  • 24 marzo, 10:49
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Il Faro: Da signore della guerra a sminatore

Telegiornale 23.03.2024, 20:00

Di: TG Faro/RSI Info 

Vito Alfieri Fontana ha ideato e prodotto mine antiuomo per oltre 20 anni. Fino alla crisi di coscienza. Ha chiuso l’azienda di famiglia ed è passato dall’altra parte della barricata, andando a sminare i Balcani finita la guerra. Un cambio di vita, un pentimento che colpisce. La sua testimonianza al Faro.

Partiamo dalla sua prima vita, lei è entrato in azienda, la Tecnovar, all’età di 26 anni. Di che cosa si occupava?

“La ditta era specializzata nella fabbricazione di componentistica militare, che potevano essere mine anticarro, mine antiuomo, bombe a mano. Per un certo periodo abbiamo anche fatto carichi di lancio per proiettili. Specificatamente io mi occupavo della progettazione dei meccanismi, dei cinematismi interni”.

A chi vendeva le mine antiuomo?

“Innanzitutto all’esercito italiano, poi abbiamo venduto al ministero della produzione militare egiziano e anche al dipartimento di Stato americano. Sono stati questi i maggiori clienti”.

Lei è di Bari e l’Italia per anni è stata uno dei principali produttori di mine antiuomo al mondo. Tutto quello che faceva era legale, quando non è stato più moralmente giusto?

“A un certo punto, all’inizio degli anni ‘90, si è proprio creata un’onda morale contro la produzione e la commercializzazione di mine antiuomo. Sia la chiesa cattolica, sia altri movimenti, spingevano per questo. Sono iniziate anche le pressioni verso l’azienda, verso me personalmente. Giorno dopo giorno ti toccano queste cose”.

Oggi è in pensione ma non rinuncia a raccontare la sua storia, ha scritto un libro (Ero l’uomo della guerra ). Ma chi l’ha convertita?

“Mio figlio. Aveva circa 8 anni quando mi ha chiesto che lavoro facessi e io, un po’ stupidamente, gli spiegai. Ci pensò e mi disse “quindi sei un assassino”, lo detto così, quasi senza offendere, come se fossi un personaggio dei videogiochi o qualcosa del genere. Poi mi chiese perché dovevo farlo io, e aveva ragione. Poi obiettivamente l’uso delle mine antiuomo aveva travalicato quello che era l’uso originale, fino a diventare uno strumento che colpiva al 95% dei civili. Non c’era motivo di continuare quel tipo di produzione”.

E poi chiusa l’azienda, è iniziata la sua seconda vita, dove è andato e cosa ha fatto?

“Prima ho iniziato collaborando con la campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo, poi sono andato in Kosovo, ero il direttore dei cantieri. Dovevo presidiare sul posto, ovvero svolgere il controllo di qualità, che equivale a un’operazione di sminamento. Il tutto moltiplicato per 20, che era il numero degli sminatori che operavano”.

Ha mai incontrato una vittima delle sue mine?

“Durante la conferenza internazionale a Oslo per la messa a punto degli articoli per il trattato internazionale, mi sono trovato a fianco un giovane inglese, completamente sfigurato da una mina antiuomo, e lo aveva fatto per altruismo. Era rimasto ferito in Cambogia con un organizzazione umanitaria. È stato imbarazzante all’inizio, diceva “ma ti pare possibile che io debba stare seduto accanto a te?”. E poi alla fine siamo andati a berci delle birre insieme”.

La sua scelta è stata tutt’altro che facile, quale prezzo ha pagato per lasciare la sua prima vita?

“Ovviamente un prezzo economico molto forte, le mie entrate si sono ridotte del 90%. Mio padre, che era titolare dell’azienda, non mi ha capito. Ma ne è valsa la pena, con il nostro lavoro ora abbiamo messo in sicurezza più di 100’000 persone”.

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