Poco meno di 80 milioni di persone hanno dovuto lasciare la propria casa nel 2019: non sono mai state così tante. È quanto è emerso dal rapporto annuale dell' Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, pubblicato negli scorsi giorni in vista della giornata mondiale del rifugiato che ricorre oggi. In occasione di questa ricorrenza, abbiamo intervistato Abdul Aziz Muhamat, un giovane oppositore del regime sudanese che da un anno si trova in Svizzera. Vi è approdato dopo un’odissea cominciata sette anni fa quando fu raccolto in mare al largo dell’Australia proveniente dall’Indonesia:
Da dove inizia la sua storia?
“Era nel settembre del 2013; in Sudan nell'ambito delle cosiddette primavere arabe c'erano delle manifestazioni di massa a Khartoum: ero in contatto con molti dei contestatori del regime di Omar Al Bechir e dopo che me se sono andato dal Sudan nella loro repressione molti studenti hanno perso la vita. Sono finito in insieme ad altri, nel settembre del 2014, nel campo australiano per rifugiati collocato nell’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea. Siamo stati affidati alla polizia locale e alla società privata di sicurezza G4S (G for S), il centro di detenzione non era ancora finito, c'erano delle grandi tende, con 123 persone ammassate in una grande capanna, che doveva essere stato un deposito d'armi. Le guardie locali non erano formate, non avevano alcuna esperienza con dei rifugiati o altre persone vulnerabili. Australiani, neozelandesi, irlandesi ed altri erano dei mercenari: alcuni erano stati in Afghanistan o Pakistan. Avevano avuto malattie postraumatiche ed erano stati esclusi dal servizio; avevano voluto cogliere questa nuova opportunità. Loro non dovevano interagire con noi, non si poteva avere neppure una conversazione con loro”.
Qual è stata per sei anni la sua vita in questo campo per rifugiati?
“È difficile descrivere le nostre condizioni di vita. Ma a Guantanamo avevano una vita migliore della nostra. Avevamo una delle peggiori situazioni al mondo. Qualsiasi domanda si poteva fare la risposta era no. Non avevano sogni e speranze. Avevamo solo l'aria da respirare giorno e notte. Non pensavamo a domani ma solo ad oggi. A come rimanere in vita fino a domani. Perché tutto era fuori controllo. Tutta l'interpretazione da dare di questo luogo era che che doveva essere come l'inferno, renderci la vita così dura, da poterlo utilizzare come una pubblicità immediata per bloccare coloro che volessero venire nel paese. Una pubblicità da diffondere come se fosse un virus per dire “questa è la nostra politica ed è un successo”L'extraterritorialità del luogo era per l’Australia una via di fuga. Le autorità sapevano di aver un problema ma non sapevano come affrontarlo. Dunque, lo hanno trasferito in un paese povero vicino”.
Quanti eravate in questo centro e come è diventato dissidente?
“Come richiedenti l'asilo all'inizio eravamo 4-500, poi siamo saliti fino ad oltre 1’700. E non c'erano famiglie, solo giovani uomini soli. Io avevo diciannove anni. Abbiamo organizzato una protesta, per avere un processo di esame della nostra domanda d’asilo. Non c'era nessun'autorità che se ne occupasse. È finita con un morto e centinaia di feriti. Mi sono detto che quest'esperienza non si sarebbe risolta pacificamente. Che dovevamo inviare un messaggio. Perché anche in Papua Nuova Guinea eravamo isolati sull'isola più remota vicina alla Corea del Nord. Lontani dagli occhi, lontani dal cuore. Nessuno sapeva dove eravamo. Non avevamo alcun mezzo di comunicazione.
E lei per sei anni è poi riuscito a comunicare con l’esterno, nonostante le perquisizioni e i controlli?
“Mi sono arrangiato per contrabbandare un telefonino. È come quando si è in una prigione: c’è del tempo e bisogna usarlo se non si vuole che sia lui a usarvi ed allora finirete per suicidarvi. Scambiandolo con cento pacchetti di sigarette che avevo messo da parte ho ottenuto un telefonino da una guardia. Poi l'ho utilizzato per fare video, foto e parlare con il mondo esterno. A metà del 2014 per la prima volta ho avuto un contatto esterno. E lì mi hanno messo su una lista nera come guastafeste perché si sono resi conto che ero l'unico che riusciva ad inviare messaggi all'esterno. Perché l’ho fatto? Sapevo che era un rischio ma non c'era nessuno che potesse parlare per noi. E se non l'avessi fatto in prima persona nessuno avrebbe saputo neppure dell’esistenza di Manus. Per noi era essenziale far sentire la nostra voce alla comunità internazionale. Non siamo più in Africa o in Medio Oriente ma in un paese libero e democratico dell'occidente.
Come è riuscito a resistere e a non perder speranza?
Nel 2015 abbiamo avuto un'altra vittima. Allora abbiamo cominciato uno sciopero della fame. Mi hanno messo per tre mesi in un'altra prigione con dei trafficanti di droga ed assassini. Per tre mesi sono rimasto con loro senza mai vedere un avvocato. Ma questo momento mi ha ridato speranza e voglia di combattere. Fino a quando nel 2018 mi hanno nominato per il premio Martin Ennals per i diritti umani qui a Ginevra. E mi hanno chiamato per chiedermi se fossi d'accordo e cosa significasse per me: ed ho risposto ‘beh sapete sono qui in una prigione’.
Questo premio per i diritti umani, dice, le ha salvato la vita facendola uscire da lì: come si è sentito arrivando a Ginevra per ritirarlo?
“Arrivando a Ginevra non ci credevo di esser qui, finché non sono atterrato all'aeroporto. E quando ne sono uscito mi stropicciavo ancora gli occhi. Non ci avevo mai pensato ma era come se un sogno diventasse realtà. Potevo stare qui e lavorare. Mi sono sentito però come se tradissi i miei amici. La gente che aveva fiducia in me e che mi ha dato l'energia per battermi. Quando ho deciso di rimanere mi sono promesso di non abbandonare fino a quando ognuno di noi fosse liberato. Ed é quello che ho fatto. Da una conferenza all'altra fino all'ONU finché il centro è stato completamente chiuso.
Abdul Aziz Muhamat
L'Australia riaprirà un discusso centro per migranti
Telegiornale 13.02.2019, 13:30
Radiogiornale delle 12.30 del 20.06.2020: l'intervista a Abdul Aziz Muhamat, di Gabriele Fontana
RSI Info 20.06.2020, 14:09
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