La convention repubblicana del 15-18 luglio a Milwaukee e quella democratica del 19-22 agosto a Chicago designeranno ufficialmente i candidati alla presidenza dei due grandi partiti statunitensi. Entrambi perché, almeno teoricamente, anche il presidente uscente Joe Biden non è certo di figurare sulla scheda di voto il 5 novembre. Fra i democratici due altri volti gli contendono la nomination e puntano a raggiungere il quorum necessario di 1’969 delegati.
Joe Biden ha 81 anni e nessun rivale di peso in campo democratico
I nomi della 71enne Marianne Williamson - che non ha mai occupato una carica pubblica - e del 55enne deputato del Minnesota Dean Phillips sono praticamente sconosciuti alle nostre latitudini e di fatto le loro speranze di successo sono ridotte al lumicino. Nella storia degli Stati Uniti, solo cinque presidenti uscenti non sono stati ricandidati dal loro partito e, di questi, quattro erano subentrati in corso di mandato ad altrettanti eletti deceduti mentre erano in carica.
Seconda nei sondaggi fra i democratici, ma lontanissima da Joe Biden: Marianne Williamson
Non succede dal XIX secolo e non è mai successo da quando si è generalizzato il sistema della primarie, negli anni ‘70 del secolo scorso. Furono seriamente contrastati solo il repubblicano Gerald Ford (che alla convention del 1976 la spuntò di misura su Ronald Reagan e perse però in novembre con Jimmy Carter) e lo stesso Carter nel 1980, quando Ted Kennedy vinse 12 primarie democratiche fra cui quelle di California e New York. Carter ottenne la nomination ma venne travolto poi alle presidenziali, proprio dal già citato Reagan.
Altri presidenti hanno invece rinunciato a correre per un secondo mandato. I casi più recenti sono quelli di Harry Truman nel 1952 e di Lyndon Johnson, che nel 1968 uscì di scena dopo aver vinto di “soli” 7 punti le primarie del New Hampshire. Alle elezioni si presentò infine il suo vice Hubert Humphrey, sconfitto da Richard Nixon.
Donald Trump favorito nei sondaggi malgrado i guai giudiziari
Dato l’esito pressoché scontato in campo democratico, l’attenzione è tutta rivolta quest’anno alla designazione del grande sfidante di Biden, con Donald Trump favoritissimo dei sondaggi e l’ex governatrice del South Carolina (ed ambasciatrice all’ONU proprio sotto Trump) Nikki Haley unica vera rivale rimasta in lizza.
Nikki Haley, l'unica a poter contrastare Trump sulla strada della nomination
Ci sarebbe pure ancora l’uomo d’affari e pastore texano Ryan Binkley, ma è sotto l’1% delle preferenze. Anche qui una corsa già segnata in partenza? Vediamone intanto le regole.
Cosa sono le primarie (e i caucus)?
Il processo cominciato il 15 gennaio in Iowa per i repubblicani e che parte il 23 gennaio in New Hampshire per i democratici è un sistema di scelta di un candidato. La distinzione fra primarie e caucus sta nella forma: nel primo caso il voto si esprime nell’urna, nel secondo nel corso di assemblee locali al termine delle quali i simpatizzanti dei candidati si contano. Nella maggior parte degli Stati la modalità prevista è quella delle primarie. Ci sono caucus in Iowa, Wyoming, Idaho, Isole Vergini e Guam per i democratici, Iowa, Nevada, Isole Vergini, Idaho, Missouri, North Dakota, Alaska, Utah e Hawaii per i repubblicani.
Un caucus repubblicano del 15 gennaio in Iowa
Chi può partecipare
Dipende dagli Stati: ci sono primarie chiuse (solo per gli iscritti al partito) ma anche aperte anche ai non affiliati. E non si vota, peraltro, solo nei 50 Stati dell’Unione e nel Distretto di Columbia della capitale Washington: anche i territori non incorporati negli Stati Uniti come Samoa Americane, Isole Vergini Americane, Guam, Portorico e Isole Marianne Settentrionali contribuiscono alla scelta dei candidati alla presidenza.
Gli elettori non scelgono direttamente il candidato, ma dei delegati schierati sull’uno o sull’altro fronte che si pronunceranno poi alla convention.
Quando si vota?
Il calendario non è fisso ed immutabile e non è del tutto parallelo per i due partiti. L’ultima parola spetta ai comitati nazionali di questi ultimi. Si può scontrare, però, con le leggi dei singoli Stati (che organizzano le primarie). Se per tradizione si cominciava con il caucus nell’Iowa per poi proseguire con il New Hampshire, quest’anno i democratici avevano deciso che si dovesse partire dal South Carolina il 3 di febbraio. Ma le autorità di Concord non ne hanno voluto sapere di perdere il primato e hanno mantenuto il 23 gennaio. Da lì la decisione del partito di ignorare i risultati dello Stato nord-orientale e quella di Joe Biden di non fare campagna e di non figurare sulla scheda. Più che per i 10 delegati, il New Hampshire contava comunque per la pubblicità data da un successo locale, utile ad alimentare la campagna.
Il nome di Joe Biden assente dalla scheda in New Hamsphire, i suoi sostenitori hanno invitato ad aggiungerlo a mano
La corsa si concluderà formalmente il 4 giugno per i repubblicani e l’8 giugno per i democratici, ma la data chiave è il Super Tuesday, il super martedì del 5 marzo quando si voterà in 15 Stati per entrambi i partiti e in un sedicesimo, l’Iowa, per i soli democratici, oltre che nelle Samoa Americane (in fondo alla pagina il calendario integrale).
Chi c’è in lizza?
Detto dei tre democratici, la corsa fra i repubblicani prometteva di essere molto affollata. Non meno di 14 candidati avevano manifestato le loro ambizioni presidenziali. Francis Suarez, Will Hurd, Perry Johnson, Larry Elder, l’ex vice di Trump Mike Pence, Tim Scott e infine l’ex governatore del New Jersey Chris Christie si sono però fatti da parte ancora prima che la battaglia delle primarie cominciasse. L’imprenditore Vivek Ramaswamy si è ritirato il 15 gennaio non appena annunciato l’esito del voto in Iowa, l’ex governatore dell’Arkansas Asa Hutchinson il giorno dopo e il 21 anche Ron DeSantis, il governatore della Florida che dopo la brillante rielezione in occasione del voto di Midterm sembrava dover essere l’anti-Trump.
Restano quindi i soli Ryan Binkley, Nikki Haley e Donald Trump. Quest’ultimo è il primo presidente dai tempi di Theodore Roosevelt (nel 1912, dopo aver servito fra il 1901 e il 1909) a tentare un ritorno alla Casa Bianca. Roosevelt non ci riuscì, l’unico presidente per due volte non consecutive rimane per ora Grover Cleveland (1885-1889 e 1893-1897).
Ron DeSantis doveva essere il grande rivale di Trump, ma la sua campagna è iniziata male e finita peggio
Una controversia legale riguarda la partecipazione di Donald Trump alle primarie in Maine e Colorado, dalle quali è stato squalificato per il suo ruolo nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Le due decisioni - che si applicano solo a questi due Stati e non all’intera candidatura - sono in sospeso in attesa dell’esito del ricorso, che almeno nel caso del Colorado approderà di sicuro alla Corte suprema degli Stati Uniti.
Robert F. Kennedy Jr. in occasione di un comizio ad Atlanta, in Georgia
Al di fuori dei due grandi partiti, altre tre persone si propongono per la presidenza, senza possibilità concrete di entrare alla Casa Bianca: Robert F. Kennedy Jr., figlio di Robert F. Kennedy e nipote dell’ex presidente John, è un avvocato ambientalista noto per le sue posizioni no vax. Cornel West è un professore e attivista progressista. E poi - in corsa per la terza volta - c’è Jill Stein. L’ambientalista, e fautrice di una politica estera basata su diritti umani e norme internazionali, è capace di intercettare voti degli insoddisfatti alla sinistra dell’establishment democratico e lo ha già dimostrato nel 2016. Ottenne solo 1,4 milioni di voti a livello nazionale, ma in Wisconsin, Pennsylvania e Michigan il suo bottino fu superiore ai margini ristretti con cui Donald Trump sconfisse Hillary Clinton. Alcuni analisti, quindi, giudicarono la sua presenza decisiva per il successo a sorpresa del magnate. Lo sarà anche questa volta?
Jill Stein. Secondo alcuni analisti, la sua candidatura nel 2016 costò la vittoria a Hillary Clinton. È in lizza per la terza volta
Curiosità: è dal 1968 (il segregazionista e populista George Wallace) che nessun candidato che non sia repubblicano o democratico ottiene un delegato nel giorno delle presidenziali.
Chi ottiene delegati? Chi vince la nomination?
Vince chi riesce a radunare per la convention la maggioranza dei delegati, il cui numero - detto per inciso - non corrisponde a quello dei delegati che verranno attribuiti da ogni Stato nel giorno dell’elezione presidenziale del 5 novembre.
Nel caso dei repubblicani alle primarie sono 2’429. Di questi 2’272 sono vincolati (“bound”), cioè tenuti a pronunciarsi come indicato dagli elettori nei rispettivi Stati, e 157 non vincolati. Nel caso dei democratici, invece, la nomination si ottiene con 1’969 delegati. In un eventuale secondo turno (se il primo non bastasse) a fare da ago della bilancia potrebbero votare anche gli oltre 700 “superdelegati” (deputati, senatori, governatori e altri “pezzi grossi” del partito).
L’attribuzione dei delegati nei singoli Stati è uniforme fra i democratici, dove ne ottiene (in proporzione) chiunque superi lo sbarramento del 15%. Fra i repubblicani, invece, convivono a dipendenza dello Stato un sistema proporzionale, uno in cui il vincitore incassa l’intera posta e varianti ibride.
Quando si decide la corsa? Un po’ di storia
Alla luce dei sondaggi, l’eventualità che la nomination dei due grandi partiti sia attribuita a primavera avanzata appare alquanto improbabile. Il Super Tuesday vale una bella fetta di delegati e la storia insegna che ha il potere di rilanciare un candidato in difficoltà (l’esempio più noto è quello di Bill Clinton nel 1992) o di affossarne le ambizioni in maniera definitiva. Quel giorno - il 5 marzo - la competizione potrebbe essere di fatto (se non matematicamente) già chiusa. Forse anche prima.
Una dinamica positiva è importante - va ricordato - anche per raccogliere i fondi necessari al proseguimento della campagna. Gli aspiranti alla presidenza investono spesso nei primi Stati una quantità di risorse e tempo superiore alla media, nella speranza di partire con il piede giusto.
Pete Buttigieg in Iowa nel 2020, dove vinse. La sua candidatura tuttavia non decollò
Che è importante ma non sempre decisivo: detto dell’esempio di Clinton, fra i democratici nel 2020 l’Iowa lo vinse Pete Buttigieg, che però poi frenò subito e finì con il ritirarsi già a inizio marzo. Solo quarto al primo appuntamento, Joe Biden prese slancio in South Carolina per poi spiccare il volo proprio con il Super Tuesday. Bernie Sanders si ritirò a inizio aprile, Elizabeth Warren era già fuori gioco dal 5 marzo, dopo un Super Tuesday in cui non aveva vinto nessuno Stato, finendo terza persino nel “suo” Massachusetts.
Nel 2016, con l’uscita di scena di Barack Obama dopo due mandati e quindi con partite aperte dentro entrambi i partiti, il testa a testa democratico fra Hillary Clinton e Sanders si profilò sin dall’inizio (alla fine, si ricorderà, la spuntò la prima), mentre Trump fu sconfitto in Iowa da Ted Cruz ma poi lo superò ampiamente. Cruz si fece da parte nella prima settimana di maggio.
Da sinistra Rick Santorum, Mitt Romney, Newt Gingrich e Ron Paul a un dibattito fra candidati repubblicani nel 2012
Nel 2012 le prime tre consultazioni diedero tre esiti diversi (Rick Santorum vinse l’Iowa, Mitt Romney il New Hampshire, Newt Gingrich il South Carolina). La nomination alla fine la ottenne Romney, che perse poi in novembre da Obama.
John McCain e Barack Obama si sfidarono nelle presidenziali del 2008
Nel 2008, infine, fra i repubblicani John McCain partì con il terzo posto in Iowa, dietro a Mick Huckabee e Mitt Romney, ma con i successi in South Carolina e Florida (dove Rudy Giuliani aveva puntato e perso tutto) prese slancio per il super martedì che lo proiettò verso il successo finale. I due rivali principali si ritirarono fra metà febbraio e la prima settimana di marzo. Fra i democratici Barack Obama e Hillary Clinton si divisero quasi equamente la grande torta del Super Tuesday e la corsa non fu definitivamente chiusa fino a giugno, quando colui che sarebbe diventato di lì a poco il primo presidente afroamericano ottenne l’endorsement di un numero sufficiente di superdelegati da potersi dire certo della nomination.
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