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"La primavera araba non c'entra"

Con la sociologa turca Meral Akkent abbiamo discusso dei disordini che stanno scuotendo il suo paese

  • 4 giugno 2013, 18:56
  • 5 giugno 2023, 20:51
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“Parlare di disordini è estremamente ingiusto nei confronti di chi ha manifestato, perché si tratta di persone molto pacifiche. Chi invece ha usato la violenza è stata la polizia e questo con livelli di brutalità e di cattiveria inimmaginabili”. Così la sociologa Meral Akkent, curatrice del Museo delle donne a Istanbul definisce i tumulti che da giorni scuotono la Turchia.

Sparano candelotti di gas lacrimogeno ad altezza uomo – ci dice, con la voce rotta dall’emozione – e “tutto ciò è documentato da fotografie e dal bollettino sanitario: a me risultano due persone che hanno perso la vista e altre due che sono decedute”.

La battaglia di Piazza Tacsim

Anche sulla battaglia di Piazza Tacsim a Istanbul la nostra interlocutrice non ha alcun dubbio: “a caricare è stata la polizia. Gli agenti erano in civile, ma indossavano la tipica maschera a gas delle forze dell’ordine e tutto ciò è documentato dalle molte riprese video che sono state effettuate”.

Lei c’era, ci ha inoltre detto, fino a che la violenza non ha cominciato a farla da padrona: “ho 64 anni e non posso permettermi di rimediare una frattura oppure le ferite che causano i prodotti chimici con i quali alterano l’acqua che sparano sui manifestanti. Per questo mi sono messa al sicuro nelle retrovie, ma le posso garantire che ho visto con i miei occhi le molte vittime causate dalla brutalità della polizia”.

I manifestanti? Un gruppo trasversale che non ha mai promosso azioni comuni

I manifestanti, che erano con lei in piazza, Meral Akkent li definisce un gruppo trasversale che proviene dagli ambienti più diversi. “Fino ad ora non hanno mai promosso azioni comuni. Ed erano veramente molti: decine di migliaia di persone. L’affermazione del presidente Erdogan secondo il quale si tratterebbe di un gruppuscolo di teppisti è una menzogna”.

"Ho visto 18enni che volevano sfondare vetri..."

Pur con tutta la solidarietà umana che possiamo provare per chi è rimasto vittima della violenza poliziesca - le facciamo notare - fatichiamo a credere che non vi fossero dei violenti anche tra chi è sceso in piazza. “Ho visto con i miei occhi 18enni che volevano sfondare vetri o causare altri danni ma sono stati bloccati dagli altri dimostranti. C’era molto autocontrollo e la massa era pacifica e sapeva quello che voleva”.

Un ambiente inimmaginabile

L’ambiente a Piazza Tacsim, ci dice poi, era inimmaginabile. “C’era di tutto: tende, acqua, cibo e persino medici che hanno improvvisato un pronto soccorso. Ho assistito a scene di solidarietà meravigliose. È stata – direi - una festa, alla quale hanno presenziato moltissime persone, che durante questi giorni si sono avvicinate moltissimo tra di loro. Un atmosfera inimmaginabile, mi creda”.

Il ruolo dei media

Sul ruolo dei media la signora Akkent invece è lapidaria: “per comunicare si utilizzava Twitter. Un ruolo determinante lo hanno giocato Radio Açik e un’emittente dell’Università del Bosforo, che i presenti ascoltavano con i loro telefonini. Ambedue le emittenti hanno informato dettagliatamente i presenti soprattutto dal profilo sanitario. Il particolare non è secondario, perché il regime, per spaventare i manifestanti, ha dato notizie di molti morti poi rivelatesi del tutto false”.

Non è un nuovo capitolo della primavera araba

Ciò detto per la nostra interlocutrice parlare di un nuovo capitolo della primavera araba è fuori luogo, perché la Turchia non è governata da un regime dittatoriale e la situazione economica non è così disastrosa. “La gente ha detto basta, perché ancora non sappiamo chi si cela dietro alla strage di Roboski oppure alle autobombe di Reyhanli ; poi il divieto di manifestare lo scorso primo maggio oppure il saccheggio dei fiumi in Anatolia per la produzione di elettricità, infine la distruzione di parchi nazionali per creare nuove superfici edificabili. In pratica quello che non è più tollerabile è lo stile autoritario e antidemocratico di Erdogan. I fatti del parco Tacsim poi sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso”.

E ora che il vaso è traboccato, come andrà a finire?

“In questi giorni la domanda più ricorrente è chi eleggeremo alle prossime elezioni. Per il resto è difficile risponderle: di certo, il carisma e la figura di Erdogan sono rimasti danneggiati, perché ha perso la battaglia di Piazza Tacsim. Non si dimetterà, per cui vedo due possibilità: la prima è che la brutalità aumenterà; la seconda è che Erdogan chiederà scusa, ma da come lo conosciamo qui in Turchia lo ritengo altamente improbabile. Dovrà comunque dare l’incarico al sindaco di Istanbul di annunciare che rinuncia al progetto di Piazza Tacsim e dovrà dimettere il capo della polizia di Istanbul. Naturalmente devono essere liberate le migliaia di persone che sono state arrestate. Se farà tutto ciò in Turchia tornerà la calma altrimenti i disordini non si fermeranno”.

Sandro Pauli

Tutta colpa di Twitter?

"Oggi abbiamo una minaccia che si chiama twitter» ha affermato in una intervista tv il premier turco Recep Tayyip Erdogan, che ha anche definito le reti sociali “una minaccia per la società”. Un’affermazione che ci ha colpito, per cui ne abbiamo parlato con Natascha Fioretti, ricercatrice all’ European Journalism Observatory (Università della Svizzera Italiana). Non ci è sembrata stupita dalle affermazioni di Erdogan.
“Twitter è la principale fonte di informazione per i media occidentali, lo strumento della gente per comunicare dal basso, si sostituisce ai media mainstream del paese nel raccontare la realtà e per questo fa paura al ministro Erdogan che non potendo esercitare alcun controllo non ha esitato a parlare di “minaccia”. Per chi detiene il potere lo è senz’altro, ma non per la democrazia e per la libertà di informazione”.
Va infatti considerato che questi tweet vengono “diffusi direttamente dalla gente che manifesta in piazza Taksim e per le strade della Città. Con i loro messaggi di 140 caratteri, etichettati con degli hashtag come #direngeziparkı e #occupygezi (parole chiave che permettono di seguire e ricostruire il filo del discorso) corredati da foto e video, ci raccontano i giorni di passione di Istanbul e del popolo turco”.

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